E come l'anno scorso, e come l'anno prima - La mia selezione annuale

Premesso che indipendentemente dal fatto che sarà Natale sia che io faccia la compilazione sia che non la faccia, tanto vale, tanto è.
Buona lettura e buon ascolto!



SEZIONE ITALIA

01- Razzi Arpia Inferno e Fiamme – Verdena (WOW)
Partiamo dalla fine, partiamo dall'ultimo nato, si tratta pur sempre dei Verdena e l'anzianità di palco fa grado. Fin da quando ero monello sognavo di vedere un video dei Verdena dove Alberto Ferrari ridesse e Roberta Sammarelli avesse una tinta decente che me la facesse sembrare piacente. Questi fanno quello che vogliono, a prescindere dal mondo musicale intorno. E a noi non ce frega un cazzo che le parole non abbiano alcun senso, dobbiamo concedere di tutto a questi tangheri bresciani che non hanno orrore né dei loro baffi né di non seguire mode e canoni.

02- Il sole (è importante che non ci sia) – Ministri (FUORI)
I Ministri vanno sentiti, visti, letti, interpretati, rivisti, rivisitati e invitati al bar. Per talento musicale (Divi, per dire uno dei quattro, sembra tanto un povero scompagnato da festa a bestia e nulla più, ma sa suonare, e lo so fare molto bene. E oltre a questo sa anche cantare e recitare. Se Morgan li ha voluti con lui in un esibizione un motivo ci sarà), per peso poetico (Federico Dragogna sa scrivere e rimare, e molto meglio di tanti altri impunemente in circolazione) e per fotta live (BEVO, DIRITTO AL TETTO, ABITUARSI ALLA FINE fanno paura) io li considero la più bella realtà rock italiana di questo periodo. Fuori sono finiti i tempi bui?

03- Del nostro tempo rubato – Perturbazione (DEL NOSTRO TEMPO RUBATO)
Sarebbe bello ridere di noi
di tutto il tempo rubato al nostro tempo a venire.
Sarebbe meglio ridere di noi
ma mi si stringe la gola non riesco a dirti una parola buona.
Amen.
E' un romanticismo in braghe corte, ma a me piace da matti.

04- La faccia della luna – Tre Allegri Ragazzi Morti (PRIMITIVI DEL FUTURO)
Io questi non li ho mai capiti e non mi sono nemmeno mai piaciuti, ma questa canzone l'ho adorata per almeno dieci giorni, ha cuore. Video meraviglioso, per inciso.

SEZIONE POST ROCK

05- Golden Sky – God is an astronaut (AGE OF THE FIFTH SUN)
Non possiedono le arti divinatorie dei Sigur Ros, i super poteri dei Mogwai, le capacità degli Explosions in the sky, ma il dizionario degli incantesimi musicali lo hanno aperto anche loro. Magari più semplici, più lineari, ma mai scontati, mai ripetitivi. Quando in questa canzone il pianoforte si mette a salterellare con il charlie e il rullante io vado ai matti.

06- Meet me in the basement – Broken Social Scene (FORGIVENESS ROCK RECORD)
Chi l'ha detto che il post-rock dev'essere triste? Lo hanno detto i Mogwai?
Allora si sbagliavano, basta guardare il video.

SEZIONE ELETTRONICA

07 – And the forest began to sing – Roysopp (SENIOR).
Avete presente quei cartelli indicativi riportanti la scritta:”Voi vi trovate qui”?
Ecco, come parte il pezzo (più precisamente quando parte il basso che manco si sente, ma si sente) noi ci troviamo in un posto preciso, l'Hinterland della magia.

08- Atlas Air - Massive Attack (HELIGOLAND)
Gioca con noi Robert Del Naja da Bristol e vince da solo, e a mani basse, il premio “Canzone più ascoltata dell'anno a casa mia”. Con questa ci ho riempito più cd “misti” da viaggio che piatti di minestra.

09- Dance yourself clean – LCD Soundsystem (THIS IS HAPPENING)
La spiegazione del perché questo pezzo faccia parte nella compilazione è dettagliatamente espressa con l'ingresso della batteria e del basso al minuto 3' e 08''.

10- Domino – The Bloody Beetroots Death Crew 77
Fuoco a volontà.

11- Derezzed – Daft Punk (TRON OST)
Quando in Francia han voglia di far sentire dei ciocchi, bisogna guardare in alto perché passano direttamente ai fuochi d'artificio.

12- Second Lives- Vitalic (SECOND LIVES ep)
Il video (dai tempi di PRAISE YOU uno dei più belli che abbia mai visto)? Il basso? Il synth? La carica? Cos'è che frega?

SEZIONE VARIE

13 – Melancholy Hill – Gorillaz (PLASTIC BEACH)
Sembrava che Damon Albarn non sapesse più quale cappello mettere alla festa. Sembrava solo. Canzone meravigliosa, punto. La versione acustica che si trova su youtube è da fabbrica dei sogni.

14 – 1000 Years - Melissa Auf der Maur (OUT OF OUR MINDS)
Come disse qualcuno dopo il concerto, “niente di speciale a parte lei”.
Verissimo, ma lei, specie in questa canzone, è da Youporn sezione RECOMMENDED TO YOU (e la mia sezione reccomended to you è la “sua”, visto che i miei tag principali sono MILF e REDHEAD).

15 – Bloodbuzz, Ohio – The National (HIGH VIOLET).
I National sono l'impossibile e perfetto incrocio tra il Bruce Springsteen di Philadelphia e il Ian Curtis di Atmosphere. Se uno ci pensa, non ci può credere. Ma se uno ascolta questa canzone, ci crede per forza.

16- Dissolve – Chemical Brothers (FURTHER)
Nomen omen; Further: Oltre.
Una delle migliori canzoni del più bell'album dell'anno: smentitemi e diventeremo ottimi amici.

Citazione speciale per:
Waka Waka – Shakira.



Dei mondiali così brutti li abbiamo visti e vissuti sì e no in Inghilterra. Ma fa lo stesso, vedere muovere quelle belle gambotte della Shakira nel video di Waka Waka mi ha dato pegno per il pareggio contro la Nuova Zelanda e la sconfitta contro il Paraguay.
Anche perché a noi quelle magre stenche non ci piacciono, molto meglio questa rezdora colombiana quando inizia a ballare al 2' e 58''.
Dio te stradora, Cesira.

Scutmài

Non è intesa per gli scutmài di Maranello, ma il significato della spiegazione che segue è lo stesso.

All’inizio i gruppi che si insediarono nel territorio, formando quindi una comunità, erano costituiti solo da poche famiglie alcune delle quali portavano lo stesso cognome. Dopo alcune generazioni, per distinguere il ceppo di discendenza, nacquero gli scutmài, ossia i soprannomi, che sono sopravvissuti al tempo tramandandosi oralmente tra le varie generazioni.
E’ oggi impossibile affermare con certezza, quali siano state le origini di detti soprannomi, anche se ipotizza un’influenza da parte delle abitudini, di qualche evento particolare o, più semplicemente, del lavoro svolto.

La mia discendenza da parte di padre è maranellese purosangue.
Vuole dire che mio nonno e mia nonna provengono da due vecchissimi ceppi familiari del paese.
- Famiglia Ferrari, ceppo Cherpiana; scutmài derivante dalla terra da dove venivano, poco sopra Fogliano, e tramandato fino a quando l'albero solitario sulla collina di Via Graziosi che ne portava il nome, piantato da mio nonno dopo la guerra, non venne abbattuto una decina di anni fa. I Cherpiana erano noti per essere una famiglia nervosa, cui non s'arrivava alla testa facilmente. Detto comune, per paese, quando un qualche esponente della famiglia se ne usciva con una mattata era:"Sa vot mai, l'è po' un Cherpiana..."
- Famiglia Canalini, ceppo Caràn: scutmài derivante dal cognome di un poveraccio (tale Carani) che mise in cinta una donna ricca e di buona famiglia di cognome Canalini. Il figlio prese il cognome della madre (caso più unico che raro per il tempo) ma creò uno scutmài nuovo, mutuando il cognome del padre.




Mio nonno chiamava mia nonna in due modi: vécia e caràna, il femminile di caràn.
Buona parte del tempo litigavano, ma si volevano un bene dell'anima, erano di un'altra pasta, di quelle generazioni hanno buttato via lo stampo.
Nel questionare li sentivo dal mio appartamento, sopra al loro.
Delle urla belluine, feroci.
Dei:
"Dio pedér, vécia!"
"Dio carlo, caràna!"

Ma roba che Germano Mosconi è arrivato lungo un bel po'.
Magari, semplicemente, queste invocazioni a Dio e alla nonna derivavano dal fatto che il nonno non trovasse, che so, l'ombrello, o i fulminanti, o il martello. Ma ogni scusa era buona per inveire al cielo mettendo in mezzo la vécia caràna.
Ma mia nonna, gran donna, non si è mai scomposta.
Prima rispondeva a tono al marito dipanando la matassa dei problemi, quindi se ne usciva con uno stupendo: "Bròt canchér d'un Cherpiana... e d'gir ch'i'm l'ivén dét ch'a vo' Cherpiana éeri tòt màt!"
La finezza del litigio stava nell'usare lo scutmài.
Si sarebbero potuti apostrofare coi nomi di battesimo "Pietro" e "Maria", o anche coi cognomi "Ferrari" e "Canalini".
No, usavano lo scutmài, nello scontro la differenza andava sancita quanto più possibile.
Era una guerra di parole, era giusto che iniziasse dalle più vecchie, dalle più profonde e potenti, dagli scutmài, per l'appunto.

E' la fine quella più importante

9-10/11/2010

Avrei voluto licenziarmi dopo un mese che ero lì.
Son stato contento d'essere in quell'ufficio solo quando la Sara mi lasciò (2 anni fa) perché il lavoro, per quanto mi facesse cagare, occupava la mia testa.
Poi, quando ho iniziato a riprendermi, a pensare solo al lavoro, e non pensare solo al lavoro per non pensare ad altro, è iniziato un tiro al bersaglio incessante.
"Non dai risultati"
"Non sono contento"
E zò legna.
Mi faceva fare tutto quello che odiavo di più, un continuo dispetto. Alcuni lo chiamerebbero mobbing, per me era solo cattiveria.
Così facendo però imparavo sempre più cose, sapevo sempre più cose e tutti mi chiamavano, mi cercavano, mi delegavano responsabilità che io non sapevo gestire perché non avevo tempo, non avevo voglia, non le volevo.
Vomitavo ogni mattina, alle otto meno dieci. Mi lavavo i denti poi andavo a lavorare.
Con i miei non parlavo più.
Mi sentivo in diritto di ubriacarmi per non pensare.
Mi sono venuti i capelli bianchi e non era né il fumo né gli anni.
Una volta son tornato a casa così frustrato che ansimavo, sono svenuto, mi hanno imbottito di tranquillanti e per due ore non sono riuscito a parlare.
Mi hanno tamponato col camion e ho preso dell'imbambito davanti a tutta la ditta.
Sono rimasto a piedi a Pesaro, sempre col Camion, ho preso dell'asino.
Ho fatto delle colonne di 20 kn a Bologna di venerdì sera che più di una volta mi son messo a piangere mentre ero lì.
Dovevo mandare delle mail alle persone che lavoravano con me perché altrimenti dicevano di non sapere, dicevano che io non gli avevo detto niente, davano la colpa a me di tutto.
Non dormivo più, nemmeno al sabato o alla domenica.
Sono stato in Toscana per il ponte dei Santi e una notte mi sono svegliato di soprassalto perché avevo avuto un incubo, m'ero sognato lui che mi cazziava. C'era qualcosa che non andava, non era più il caso di farsi rovinare la vita, specie se proprio in quel momento ero al fianco di una ragazza meravigliosa e la mia mente (che non posso controllare per intero) mi rimandava ad altro.

Ho fatto un salto nel buio, perché un altro lavoro non ce l'ho.
Dovrò stringere i denti, passare al drum, bere un solo long island e non cinque, uscire di meno, venire meno allo stadio.
Ma o questa scelta la facevo adesso o non l'avrei mai più fatta.
E' una banalità, ma la vita è una sola, e io a 35 anni così, quando magari non avrò più la possibilità di cambiare le cose, quando non ne avrò più la forza, quando l'abitudine l'avrà avuta vinta sulla felicità, non ci volevo arrivare.

Quando ho detto all'Eliz che avevo paura di rimanere senza soldi, di essere un peso per i miei, lei mi ha risposto:"Tu non hai capito. Tu per i tuoi sei un peso adesso."

Quando la Sara mi lasciò mi anticipò per sms quello che ieri è stato il mio status su fb. "Questo è un giorno che, nel bene o nel male, ricorderò per tutta la vita."
Ho fatto mia questa frase perché solo ieri l'ho capita del tutto.
Perché ogni tanto bisogna ripartire da zero.
Nessuno di noi prevede il futuro, ma trascinarsi quando non si sta bene è solo dannoso, prima o poi la testa reagisce, e reagisce in maniera incontrollata e incontrollabile.
E me lo ricorderò per tutta la vita quando ieri, una volta firmate le dimissioni, mi sono seduto sulla mia ex sedia e senza che pensassi a niente mi sono messo a piangere dalla gioia, dalla felicità, come se mi fossi liberato di un peso enorme, come se non avessi più un fardello da portare, come se mi fossi estirpato un cancro e, non ultimo, senza il timore che potessero portarlo altri per me. Perché il dolore si trasmette, è quello il brutto.
Se sto male io, prima o poi, chi più chi meno (a seconda di chi mi è più o meno vicino), sta male anche qualcun altro. I miei genitori, i miei amici, le persone cui voglio bene.
E condividere il dolore non è sperare che le persone care ti accettino in toto, capiscano che nel pacchetto-Zeman ci sono ombre, condividere il dolore è cattiveria, è egoismo.
Lo ricorderò per tutta la vita perché quando ci vuole, ci vuole, come mi ha scritto l'Anna, e vaffanculo se non ho una boccia di cristallo per prevedere quello che sarà, se tra un mese avrò trovato un nuovo lavoro, se tra sei mesi sarò ancora a spasso, se aprirò con Max un agriturismo dove, per differenziarci, ricorreremo a 5 cani acrobati.

Ho fatto fatica a prender sonno ieri sera.
Non perché creda di aver fatto male, ma perché le situazioni ti mancano, sai che quel posto non lo vedrai mai più, e gli hai dato tre anni della tua vita.
Fa lo stesso.

Quando la Sara mi lasciò (l'ho detto spesso in questo post, ma le vite delle persone si misurano in base a momenti cruciali, è come se fossero "precedenti", pietre di paragone) credevo di non farcela, credevo che mi sarebbe crollato il mondo addosso.
Con calma ne son venuto fuori. E forse ora è meglio di quanto mai sia stato una volta. Forse la sua decisione ha giovato a tutti. Quel giorno è diventato cruciale anche per me, nel male prima, nel bene poi.
Magari sarà così anche ora, per la scelta che ho fatto.
E' tutto.



Ieri ho avuto l'ultima indecisone, non lo nego.

Poi mi sono imbattutto per caso (?) in questa poesia.

Ode alla Vita


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,

chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.


Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.

Ma dabaun, mia da burla.



Son sempre più convinto che dove non arriva il rock arrivi l’elettronica. E’ altra metà del cielo, e non quando piove. Secondo Checco Blue Monday era l’unico pezzo che, se ascoltato ad un elevato volume in macchina e se sostenuto da alta velocità di base, trasformava la macchina stessa in un elicottero. Ora c’è Escape Velocity e se l’estate ci ha dato conferma di una cosa è proprio che a volume 28 escono le pale e si vola. Unica controindicazione: occorre fare almeno i centoventi all’ora, ma almeno.


Una mia amica (molto più su facebook che nel mondo reale) ha scritto suppergiù:”Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere”. Voglio essere taggato in questa massima subét.

Kevin Prince Boateng, l’unico e solo PRINCIPE DI MILANO, è un carrarmato col turbo che quando decide di spostare il carico in avanti diventa peggio del fuoco amico. E’ così sbandato che, quando gli scappa il boccino, prende, parte e uccide direttamente il bue nel bosco. Tutto quel che ha intorno affonda a gambe all’aria. Finalmente abbiam comprato uno scoppiato da affiancare al marsigliese. Quando ributteremo nella mischia a fare schermo anche Sant’Ambròs, la mediana del Milan diventerà un posto così inospitale che al confronto Nagasaki nel ‘45 sarebbe sembrato un luogo di villeggiatura per famiglie.

La fragilità del cristallo non è una debolezza, ma una raffinatezza. (Cit. Into the wild).
Questa è una frase più bella che sensata, è una pinocchiata a tutti gli effetti.
La trasparenza e la profondità del cristallo sì, sono una raffinatezza. E poi dipende di quale cristallo.
La fragilità invece è la cosa più pericolosa che c’è, e ‘sta cosa vale a Roma come a Milano, che quando ti rimangono in mano i ritagli scheggiati non stai a pensare a quanto sia raffinato ma, a dispetto di tutti i Santi, osservi quante loro statue stanno volando giù dai campanili causa tutti i nomi che hai sacramentato al cielo.


Il tempo più che un galantuomo è un furiere distratto e anche un po’ stronzo.
Smarrisce le cose, le nasconde, le tira fuori quando cazzo gli pare. E quel che è peggio è che sembra farlo di scuola.


Daniele Bonera sulla corsia di destra ha la consistenza del borotalco.
Io non ne posso più di vedere dei centrali dirottati in banda, dei portieri mediocri che non ne fanno uno buono in quattro e dei fantasisti fermi che sembra che abbiano 35 anni e siano sul Viale del Tramonto, e invece hanno la mia età ma pesano 35 chili di più.
Silvio, comprami un Bastos qualsiasi, par piasér, e chissenfrega se non sa mangiare con le posate o non ha i piedi di Roberto Carlos o Maicon. Gente come Robinho lasciala a bighellonare nei night club della merdosa Manchester.

C’è solo una razza peggiore di quelli che fanno di tutti per incularti, ossia quelli che non si dannano tanto per farlo ma lo fanno col sorriso sulle labbra e la miglior faccia da schiaffi che han trovato sul comodino quella stessa mattina.
Io mi auguro che muoiano tutti domani. E al loro funerale non ci vado neanche per sbaglio.


Se al Bar della Motta trasmettessero un po’ di chill out e facessero passeggiare qualche ragazza in stanella, sarebbe il miglior bar del comprensorio. Tuttavia non sarebbe più “Il Motta” e non ci troverei più Cavani a bere Ichnusa a personal, solo apparentemente sconsolato quasi fosse uno squatter in un circolo anarchico di bassissima tacca, ma sembrerebbe d’essere a Sassuolo nella Piazza dell’Orologio. Sai che sballo? No, grazie. Preferisco gli sbandati, preferisco Cavani che beve Ichnusa a personal.

Una cara persona mi ha consigliato:”Vattene, ma non prima di avergli dato dei danni”. Non starò ad abbaiare senza mordere, non farò la mescola, né ti prenderò per il bavero ricordandomi tutto quello che mi son dimenticato di dirti e improvvisandomi immortale per un attimo. Ma arriverà la resa dei conti, te lo giuro su Dio, che io di vomitare tutte le mattine per colpa tua e ansia mia mi son bellamente rotto i coglioni. Poi spero che la tua azienda diventi un medioevo di imbecilli con un costante puzzo di piscio tutto in giro, e con buona pace di quei tre / quattro che non hanno colpa.

I Ministri sono l’unico gruppo da prima pagina attualmente in circolazione in Italia.
Ma dabaun, mia da burla.

CON QUESTO SOLE NON SI VEDE NIENTE.
Io non ho mai preteso di capire i testi altrui né di trovarci messaggi nascosti (né tanto meno inviti al satanismo), ma ammesso e non concesso che lo sia, questa è una bellissima metafora per dire una verità scontata, tanto semplice quanto triste, ossia che non è tutto oro quel che luccica, che le cose belle ci accecano. Solamente che, urlato in maniera disperata, assume tutt’altra forza.
Alla fine diventa facile entrare direttamente dentro a un verso che solo a un primo ascolto risulta insensato.

E’ IMPORTANTE CHE NON CI SIA IL SOLE, CHE MANDA SEMPRE TUTTO A PUTTANE.



P.zza Crack-sì & Iraequiete



“Zè, dimmi la verità. Un anno fa avresti mai pensato che sarebbe successa una cosa così?”

Non riesco a raccontare quel che è successo per filo e per segno. Per cui scriverò parole e impressioni a caso.
Meglio infatti riportare immagini, che siano distillati di memoria, grandi o piccoli, quasi fosse il pensatoio di Albus Silente, che provare a descrivere.

Non ha nessuna importanza cosa abbia significato questo evento, che valore abbia avuto, che cosa si sia sentito, che festa fosse, che tre quinti delle persone che sarebbero potute venire fossero a Castagneto, e un altro quinto fosse all’Abbuffata a Maranello.

E non me ne frega un cazzo se tutta l’organizzazione dell’Abbuffata era in mano ai miei amati vicini di casa, porco diaz, basta calcio, cazzo! Menga, l’Abbuffata organizzala negli anni dispari, no? “Perché non sei venuto?” A parte perché dopo cinque anni tornavo su un palco e penso di aver fumato un pacchetto di sigarette a tempo di record causa l’emozione, ma anche perché alla tanto blasonata Abbuffata non c’era neanche una cazzo di vuvuzela.
O le cose le fai per bene, o non le fai.

Suonare, perché ho sempre suonato. Come tempo fa, ma con la consapevolezza di aver degli anni in più, di avere parole più belle da cantare, di suonare centomila volte meglio, di avere un basso coi fantacazzi pagato da me cui voglio bene come fosse il primo dei miei figli. Ma soprattutto con la consapevolezza di fare la musica che ho sempre voluto fare. Cazzo, che benessere.

Suonare a Pavullo. E dire che due anni fa m’ero ripromesso di non metterci mai più piede.
Grazie Benny per avermici riportato. M’hai fregato dieci anni fa, mi hai fregato anche ‘sto giro.
Saranno le tette, sarà che dopotutto mi fido di te.

Condividere il palco con Santu (e in seconda battuta con Kiki, ma con Santu è un’altra cosa, un altro rapporto), e prima urlare tutta Precipito, urlare tutta Male di miele, essere contento per lui, essere contento per loro. Provare per la prima volta una sensazione nuova. Ossia che a questi voglio bene anche se son più bravi di me, anche se suonano meglio di me, o sono più simpatici, o hanno più tiro. No, Santu, non vi sto parlando addosso: è la verità. Altrimenti non mi sarei messo a cantare sotto il palco le vostre canzoni.
La gente può pensare male di me, o non credermi, e se sapesse cosa io penso di loro penserebbe peggio ancora di me, ma per voi ho solo parole buone. Tra l’altro mi è piaciuto molto anche Tommy.

Sedermi di fianco a Lollo poco prima di iniziare a suonare, vedere la Linda venire ad incoraggiarci e guardarci come fossimo due bambini.
Berta agitatissimo che girava senza senso.
Non avere la minima idea di dove cazzo fosse il Moro.

Rompere per troppa foga l’alimentatore del pedale. Come direbbe Riccardin Cavani col suo vocione:”MOLTO BENE!”. Non tanto perché mai e poi mai avrei voluto romperlo sul palco ma anche perché mi tocca pigliarne uno nuovo e quelli come il mio li vendono solo a Vignola e costano un badalucco di danée.

Non sentire una madonna di niente se non la batteria e stabilire che avrei seguito quella, tanto così facendo non avrei sbagliato più di tanto.
Trovare il Moro e Berta a occhi chiusi perché ci suono insieme da una vita, non solo so come e quando faranno una determinata cosa, so anche come e quando ne sbaglieranno un’altra.

Malinteso, Tregua, Irena, Nura e Adesso.

Mi hanno detto che non si è sentito tanto bene. Per forza, ma fa lo stesso. Quel che contava per la Data Zero era l’emozione. E’ stato un battesimo spietato. Avere un sacco di cose contro o impreviste ma andare via sparati, con pochissime sbavature strettamente dipendenti da noi.

Adesso per me è stata la sintesi perfetta dei sentimenti che mi son portato dentro per un anno.
Ok, Irene: sentire Gav e Santu cantare:”Trattieni il respiro, non dici una parola” è stato qualcosa di bellissimo, ma la sincronia di emozioni scaturita da Adesso è stato il raggiungimento di qualcosa cui ambivo da sempre. Possiamo averne incantati anche solo cinque ma quei cinque li abbiamo incantati a dovere.
Cavalcare selvaggiamente sul passaggio finale con Lollo che picchiava come un iradiddio, roba che neanche i migliori gruppi post rock, poi fermarsi all’improvviso e lasciare che fosse il basso a sgocciolare note in delay. Sentire quell’applauso naturale che parte solo quando hai centrato l’obiettivo. Una dei più forti batticuori della mia vita: da pelle d’oca.

“Zè, è stata la prima volta che hai lasciato che io mettessi un mio testo su una tua musica. Le tue emozioni combinate alle mie, con Berta e Lollo che han capito cosa volevamo intendere, han prodotto qualcosa cui non eravamo mai arrivati. Una cosa così non l’avevamo mai fatta”.
Moro, quant’è che suoniamo insieme? 10 anni?
Dopo dieci anni ce l’abbiam fatta.

Scendere, parlare con questo, quell’altro, perdere di vista Max, Berta, Lollo, ritrovarsi con Santu a brindare con una bottiglia di vino a noi stessi in un parcheggio deserto. Poi andare a Castagneto e sbronzarsi di brutto perché bisognava festeggiare.

“No, no. L’ho presa gigante” avrebbe chiosato Berta alle 4.30 del mattino.



- Grazie Linda, Gav e Jean. Senza di voi nulla di tutto questo sarebbe stato possibile.
- Grazie Berta e Moro per avermi seguito ciecamente. In cambio dovete riconoscere che ho lasciato che mi rompeste il cazzo a oltranza e molto più del consentito, prova dopo prova. E non è da me. Anche solo due anni fa vi avrei mandato a fanculo senza farvi nemmeno passare dal via al decimo minuto della prima prova.
- Grazie Lollo perché le idee che vengono a te, a me non verrebbero nemmeno in cinque anni. E grazie perché, secondo me, questa volta io te abbiam preso ogni battere, ogni levare e ogni break. Una constatazione. I fuoriclasse sono quelli che durante l’allenamento a volte sembrano soprappensiero o sembrano disinteressati; poi quando è ora di giocare per davvero fanno la differenza. Tu Lollo sei uno di quelli.
- Grazie Santu perché con te quest’anno ne ho viste molte, ma questa è stata la migliore. Sinceramente mi auguro non sia l’ultima così bella perché non sono per niente stanco di stare dalla parte delle asole e non vedo l’ora di riprendere le ostilità contro chicchessia.
- Grazie Checco perché fondamentalmente il tuo è uno dei pochi pareri che mi interessano. Non solo in senso musicale.
- Grazie Luca Eliz e Menga perché NON SOLO non siete venuti, ma vi siete lamentati perché non son venuto io a vedere l’Abbuffata.
- Grazie Selly per le torte che ci hai portato alle prove e per averci sempre sostenuto.
- Grazie Leti per avermi retto tutto venerdì e tutta la settimana scorsa.
- Grazie Paolo & Marchio. Mi auguro che la prossima volta facciate un dj set spietato. Ma me lo auguro sinceramente!
- Grazie Alle perché mi hai fatto scannare (tanto per cambiare) e perché stai organizzando la trasferta per la Melissa.
- Grazie Ché perché:”Zeman, io di musica ne ascolto, ma che cazzo di genere è, il vostro?”
- Grazie Fon per aver invaso il palco e perché:”Fon, ti siamo piaciuti?” “… No.”
- Grazie Enrico per avermi prestato tutto. Grazie veramente.
- Grazie Kiki perché avevi un basso bellissimo e perché:"Ma cum a fani a durmir in chi tabernachél lè?"
- Grazie Dave Ravera perché se anche non guardo un cazzo di quello che mi invii per mail un po’ di bene te lo voglio. Prima o poi andremo d’accordo per davvero, chi lo sa?
- Grazie Enrico “Il sempre Buffo” Buffagni. Col palco sotto i piedi ero alto come te.
- Grazie Simo e Italo per aver sfidato la Festa del PD pur di sentirci suonare e per aver detto:"Ma allora sapete fare anche altre cose oltre a sbronzarvi..."
- Grazie Giaco perché ci vuoi bene a bestia.
- Grazie Fabìn per il messaggio.
- Grazie Benny per l’abbracciatona a Castagneto.
- Grazie Piada perché io, è vero, tiro più pacchi di Amy Winehouse, ma anche tu non sei da meno.
- Grazie Mì e Liz: in fondo siete due sbandate anche voi.
- Grazie Canovi perché forse è grazie a te se Gavioli è ancora vivo.
- Grazie Vale per essere stata con noi all’inizio.
- Grazie Elena per le foto. Bel lavoro.
- Grazie Barra perché ti devo tantissimo e tu nemmeno lo sai.
- Grazie Tom per averci citato su facebook.
- Grazie Cavva perché sei el nino maravilla di Maranello.
- Grazie Dom, Monica, Vantin, Adragna per la presenza.
- Grazie al PD di Pavullo che ci ha offerto da mangiare. Di solito a tutte le altre feste era sempre e solo una birra piccola e un panino di merda. Chapeau.
- Grazie Bad perché sappiamo di avere un fan in Francia. Sai che bello!
- Grazie Frenci per il pensiero, apprezzatissimo.- Grazie Fonzo, Mario e Verra per averci lasciati liberi di fare. We're changing our ways taking different roads. Non esistono tradimenti, esistono solo cambiamenti di rotta.

- Grazie Sara perché senza di te non avrei mai scritto né Tregua né Irene e mi sentirei molto più vuoto di quanto forse non sono già.
- Grazie a tutti quelli che mi sono dimenticato di citare.


Santu, dopo tutta questa "stucchevolezza" mi aspetto un imperioso ritorno dei tuo classici messaggi d’amore (sms o vocali) riportanti complimenti quali:”Pelato”, “Vecchio”, “Sfigato”, “Zeman sei una checca”, “Thiago Silva è una merda” o una delle tue migliori uscite di sempre:”Non me ne frega un cazzo del Milan, io non seguo il calcio minore”.

I fiòl di gàt i magnen i pundeg.

Premessa
Correva l'anno 1995, avevo 14 anni.
Dopo una vita passata in piscina e sui campi di calcio mi innamorai del tennis.
Accadde per caso.
Mio padre, specie in estate, occupava molte sue serate sui campi rossi di Pozza.
Una volta il suo compagno di racchetta non riuscì a presentarsi e mio padre, vedendo che stavo diventando un ometto, mi chiese se mi fossi sentito pronto a giocare contro di lui.
E io, con tutta l'arroganza dei miei 14 anni, risposi qualcosa come "claro que sì", senza aver mai preso una racchetta in mano.
Presi un 6-0 di quelli umilianti e mio padre non si divertì neanche, ma per me fu bellissimo.
Allora non potevo capire ma son quelle esperienze che formano un ragazzo.
Affrontare il proprio vecchio, mandarlo a fanculo, cercare di scherzarlo senza riuscirci, fingere di non ascoltarlo quando mi rimbrottava ma seguire ogni sua indicazione avidamente, mandarlo a fanculo un'altra volta, venire umiliati ogni 3 x 2, fare la doccia insieme.
Generazioni contro, lo stesso sangue contro: cazzo che figata.
Andammo a giocare un sacco di altre volte quell'estate. Nonostante la mia prima sconfitta, ero portato, a livello di talento sportivo ero come mio padre, e del resto i fiol di gàt i magnen i pundeg.
A Settembre volli andare a giocare per davvero.
Mi iscrissi ad un corso di tennis a Maranello. Mi fecero un provino e mi misero ad un livello buono, il secondo in assoluto. Caso volle che mi ritrovai ad allenarmi con un tot di ragazzi e con mio cugino, Francesco.




Storia
Dopo un anno di allenamenti, gli insegnanti decisero di organizzare un torneo.
Era a griglia con eliminazione diretta al meglio delle due. Si partiva dai 32esimi.
Chi avrebbe vinto la finale avrebbe avuto accesso al gotha del tennis giovanile maranellese, l'anno dopo si sarebbe allenato con i ragazzi più forti, quelli del primo livello.
Feci fatica solo in semifinale, del resto non ebbi grosse difficoltà ad arrivare in finale.
Ovviamente mi ritrovai a giocarla contro mio cugino.
Al tempo non lo avevo capito ma ora posso dire con certezza che non fu un caso nemmeno quello. Gli insegnanti misero me da una parte del tabellone e Francesco dall'altra così che ci incontrassimo in finale, perché tanto ci saremmo arrivati entrambi. Poi lì si sarebbe visto il più forte. Se avessero studiato il tabellone in un altro modo e ci fossimo incontrati prima, la finale anticipata non solo avrebbe rovinato la bellezza del torneo, lo avrebbe falsato.

Andavo ad allenarmi due giorni a settimana, dalle 5 alle 6.30.
Andavo al campo di Maranello a piedi quindi uscivo e correvo da mio padre che mi aspettava. E' sempre stato molto severo e non ha mai tollerato il ritardo per cui io alle 6.31 massimo dovevo essere davanti alla sua macchina.
Lui usciva dalla Ferrari alle 6, bella grazia che mi aspettasse fino alle 6.30 e mi portasse anche a casa. Ogni volta correvo come un matto verso la sua macchina sperando non tanto che mi sorridesse, ma almeno che fosse meno nervoso del solito perché avevo fatto in modo di non fargli perdere troppo tempo.
Una volta arrivai alle 6.40, mi diede una cazziata che me la ricordo ancora.

Nel torneo dovetti quindi non solo giocare contro i miei avversari, ma anche batterli per tempo. Non potevo gigioneggiare, dovevo schiantarli alla svelta. Non potevo stare a fare dei pizzi, palleggiare, ricamare. Appena vedevo dello spazio io sparavo delle fucilate e tanti saluti. Per vedere Agassi bisognava guardare l'altra parte del tabellone, se invece ci si accontentava di Sampras c'ero io.

Arrivo in finale contro mio cugino, contro Francesco.
Ci sono anche i ragazzi del primo livello ad osservarci.
Il primo set non ci capisco un cazzo. Perdo 6 a 2 senza troppe feste. Chissà? L'emozione. Una finale è pur sempre una finale.
Il secondo set capisco che non si può più scherzare, e oltretutto sto anche perdendo del tempo. Mio padre non me lo perdonerà mai. Per cui cerco di vincere e di liquidare Francesco alla svelta. Vinco io 6-4.
E' al meglio delle 2 quindi si va alla bella.
Gran peccato che siano già le 6.15.

Alle 6.30 siamo 2-2.
Inizio ad agitarmi, mio padre è lì fuori che mi aspetta.
Amen, non posso mica perdere. Aspetterà altri dieci minuti.
Alle 6.40 siamo 3-4 per me.
Sono agitatissimo, avevo previsto di aver vinto a quest'ora.
Amen, mio padre aspetterà altri 5 minuti. Non posso perdere.
Alle 6.50 siamo 5-5.
Non me ne fregava un cazzo del fatto che chi avesse vinto avrebbe giocato contro i più forti, non me ne fregava un cazzo che il rampollo dei parenti contadini potesse imporsi sul rampollo dei parenti dottori, non me fregava un cazzo di questa incredibile rivincita sociale, non me ne fregava un cazzo che Francesco giocasse da una vita e io solo da un anno eppure fossi lì, mi fregava solo di due cose:
1) vincere;
2) sperare che mio padre non si incazzasse.

Alle 7 siamo 6-6.
Una finale infinita. Il campetto tutto intorno era pieno di gente, tutti che ci guardavano.
Potevano essere anche in centomila, non me ne fregava un cazzo.
Io dovevo vincere, e dovevo sperare che mio padre non si incazzasse.

Tocca a me battere, butto lo sguardo verso il parcheggio, e vedo mio padre, attaccato alla rete di protezione che mi guarda. Ha due occhi cattivissimi.
Non importa, prima vinco e poi mi prenderò la cazziata.

Francesco è fortissimo e non ha la minima intenzione di perdere.
Andiamo avanti fino a 13-13 e arrivano le 7.20.
Guardo mio padre, è incazzato nero.
Decido allora di darci a mucchio.
Commetto doppio fallo, mando lui in battuta e al secondo scambio la sparo fuori con quanto ne ho, senza nemmeno guardare dove.
Faccio su armi e bagagli e vado verso mio padre.

Non ci diciamo niente, sale in macchina, accende, partiamo.
Io che pensavo:"adesso si incazza, mi urla addosso, mi dice che d'ora in poi devo tornare a casa a piedi, ecc... che due maroni...". Non mi importava più aver perso, mi interessava solo uscire dalle cazziate di mio padre con meno ossa rotte possibile.

Dopo duecento metri, si ferma, spegne la macchina, mi guarda, e mi urla:"ADESA T'EM DIT CUM ET FAT A PERDER, SEMO!!!".

Tu, cinque giorni di tristezza e poi corri incontro alla vita


In anni e anni di scuola, spogliatoio, vacanze al maschile, band musicali, ho sempre pensato che stare in mezzo a soli uomini fosse un’esperienza temprante. I discorsi sul carisma, la selezione naturale, il gruppo, il cameratismo. Tutti principi spietati ma dall’immenso valore.
Pensavo d'essere vaccinato per qualsiasi cosa e credevo che qualora per obbligo o necessità (e non per amicizia) mi fossi trovato in mezzo a sole donne non avrei avuto nemmeno un problema. Dopo tre anni di lavoro a stretto contatto con sei donne mi accorgo di aver fatto un grossolano errore di valutazione.

Tanto perché Nick Hornby ci ha insegnato a stilare liste e classifiche, eccone un’altra.

1) Loro hanno sempre diritto ad essere incazzate, a sentirsi poco bene, a rispondere di merda, a parlare di continuo, a raccontare dei loro figli di cui non mi frega assolutamente un cazzo, a dar l la colpa ai piccoli di qualsiasi loro problema o di qualsiasi loro necessità. Nel caso ad essere incazzato sia tu-uomo, o qualora ti senta poco bene e ti scappi una rispostaccia la cosa migliore che ti puoi sentir dire è:”Calmati, non è colpa mia se stai poco bene o se sei incazzato col mondo”.

2) In inverno hanno freddo e mettono il riscaldamento a bomba. Se chiedi di abbassarlo, lo fanno. Scocciate, ma lo fanno. Ti assenti un attimo e tornano ad alzarlo. D’estate hanno caldo e mettono l’aria condizionata ma la mettono al minimo sindacale. Se chiedi di alzare, lo fanno. Scocciate, ma lo fanno. Ti assenti un attimo e tornano ad abbassarla.

3) Se per caso portano in ufficio le paste per festeggiare un qualche evento, le hanno sicuramente prese nel miglior forno della Provincia. Se lo fai tu-uomo si sentono autorizzate a dirti che sono troppo unte, sono troppo grasse, sono troppo secche, costano troppo, i gestori di quel posto non sono gentili, è meglio dove vanno loro. Se rispondi che allora sarebbero potute andarci loro o che non credi che sia come dicono:”Mamma mia se sei permaloso, non ti si può dire niente”.

4) Hanno diritto a ripeterti una storia che ti hanno già raccontato mille mila volte. Se fai loro notare che non è la prima volta che la senti, continuano imperterrite. Se anticipi loro la conclusione perché sai già come va a finire, continuano imperterrite. Quando attacchi tu-uomo con una storia sui generis che non conoscono, non t’ascoltano.

5) Se sono al telefono devi stare rigorosamente zitto e a tre metri di distanza. Se sei al telefono tu-uomo possono entrare in ufficio, stendere i panni, urlare neanche fossero a Napoli e parlarti mentre hai la cornetta in mano e stai ascoltando chi è all’altro capo della linea.

6) Se hanno bisogno di te è sicuramente un’urgenza. Se sei tu-uomo ad avere bisogno di loro sei uno spaccamaroni.

7) Ogni loro nuovo moroso è quello giusto, l’uomo della loro vita. Ogni tua amica che non conoscono è una puttana o ha meno tette di loro.

8) Se ritengono che tu uomo sia vestito male, hanno il sacrosanto diritto di fartelo notare e dirti come ti saresti dovuto abbigliare. Se provi a fare la stessa cosa, ma a parti invertite e magari perché son state loro a chiederlo a te, le conseguenze possono essere queste. A) “Se invece di giudicare ti guardassi…tu pensi d’esser bello?” B) “Invece sto bene” (e allora se lo sai già che cazzo me lo chiedi a fare?) C) “Sei uno stronzo”.

9) Non puoi permetterti di mancare di rispetto al loro sport del cazzo, al loro passatempo di merda, o ai locali che frequentano. Se invece tu-uomo suoni in una band musicale:”Hai trenta anni, è ora che la smetti di sognare”

10) Tra di loro è tutto un sorriso, tutta una moina, tutto un complimento. Poi, girate le spalle, si dicono dietro le peggio cose. Ma robe che se non avessi sentito con le mie orecchie non sarebbero neppure verosimili, per di più con una cattiveria che un uomo userebbe solo per far male e userebbe solo faccia a faccia, o se messo alle strette, o arrivato a un punto cruciale di rottura. Tuttavia sembra che faccia parte di un codice deontologico femminile, è cosa condonabile, accettata sotto silenzio.

Poi, dulcis in fundo, il mestruo: tana libera tutti. Il momento peggiore in assoluto (e fate i vostri conti: 5 giorni x 6 donne = 1 mese intero di nervosismo). Anzi, no. Il momento peggiore di tutti è quando sono in ritardo. Dio mé.

Per piacere, sostituite le mie sei colleghe con i sei uomini più cagacazzo del pianeta. Lasciatemi un mesetto per prender loro le misure, vedrete che non avrò nemmeno un problema.

Del nostro tempo rubato



Sarebbe bello ridere di noi, di tutto il tempo rubato al nostro tempo a venire.
Sarebbe meglio(giusto) ridere di noi, ma mi si stringe la gola, non riesco a dirti una parola buona.

Domenica sono stato in un paese a me caro e per l’occasione del viaggio ho compilato un cd con alcuni pezzi di album appena usciti.
Tra questi: “Del nostro tempo rubato” dei Perturbazione.
E’ incredibile come, neanche a farlo apposta, questa canzone sia stata la colonna sonora più adatta per la trasferta toscana. Sono strade, paesi e panorami, quelli, conosciuti anni fa in circostanze completamente diverse da queste. Ripercorrerle e rivederli, sebbene lo avessi già fatto e non mi avesse turbato, mi ha messo addosso una tristezza infinita.
“Colpa” del sottofondo musicale.

E’ come se i ricordi si fossero ripresentati lì, vividi e cattivi: senza pietà.
E non è stato il male della memoria a colpire, è stata la malinconica constatazione del rapporto tra tempo “rubato” e tempo a venire.

Pare impossibile riportare le sensazioni che ho provato meglio di quanto dicano questi versi. Che forse non hanno neppure il significato che intendo io, ma rendono l’idea allo stesso modo, forse meglio. Magari quel noi è un plurale maiestatis mentre io lo considero un noi di coppia: è uguale.
Sarebbe bello ridere, o meglio sorridere, di quello che siamo stati, sarebbe meglio, sarebbe giusto.
Rivedere quei posti, quei paesaggi e quei passaggi e abbozzare un sorriso distaccato ma intenso, come se si stessero celebrando sconfitte che sono trascorse e non fanno più male.
Invece sono nostalgie brense.
Riguardare le foto, leggerne negli occhi e nei volti dei protagonisti una serenità che allora non sembrava finita e che invece ora si dimostra irraggiungibile.
Scartarne i difetti perché quelli di ora sono nettamente peggiori.

Non è la fatica, è lo spreco che mi fa incarognire.
Non è neppure tempo rubato, è lo spreco nel senso di qualcosa che è stato, che non si può riavere indietro, che è valso la pena vivere, che è valso in ogni suo attimo, ma che non è rimborsabile.
Non è la volontà di tornare indietro, è il riscontro della difficoltà di andare avanti.
Vorrei cambiare sì, vorrei cambiare tutto.
dice la canzone.
E fin qui… Diventa complicato quando certe cose non si possono cambiare, quando è ora di arrendersi, di alzare bandiera bianca e accorgersi che tutti i piani B sono andati in merda.
Accetto che sia così, non accetto che rimanga così.

Un amico mi ha detto, scherzosamente, che vorrebbe lavorare solamente per pagarsi i vizi.
Un altro amico -in un elucubrazione filosofica totalmente fuori luogo e completamente fuori contesto- mi ha detto che l’alienazione lavorativa di marxiana memoria esiste ancora e che si traduce nel distruggersi la sera, nei week end, nel trovare uno sfogo all’ansia e allo stress della settimana di lavoro.
Vera la prima.
Falsa la seconda.
Passa una differenza sottile tra i due concetti. Finché si trova uno sfogo, significa che siamo padroni di quello che facciamo, non siamo alieni a noi stessi, stiamo ancora decidendo come e cosa fare per trovare una soluzione. Quando lo sfogo è una gabbia, un cane che si morde la coda, allora sì: è alienazione, non siamo noi a decidere.
Io lavoro per i vizi, per cercar sera, per week end che siano più violenti delle settimane.
Accetto che sia così, non accetto che rimanga così.

Perfino il rock ti scava rughe sulla faccia, e chi l'avrebbe detto?
e, aggiungo io, ti mette un mucchio di capelli bianchi (quelli che mi rimangono): diventa un problema specie perché con la mia faccia ci devo girare io.
Di avere un tempo che nessuna mi renderà indietro mi può anche stare bene, è la vita.
Di accorgermi che ne sto rubando a quello che ha da venire, no, per niente, non mi sta bene per un cazzo.

Brace (Consorzio Suonatori Indipendenti - Tabula Rasa Elettrificata)

Correva l’anno 1997, era pressappoco ottobre.
Uscì T.R.E. e finì direttamente al primo posto di Hitlist Italia su MTV.
Ricordo chiaramente le parole di Enrico Silvestrin, il VJ del tempo:”Questo è un giorno da segnare sul calendario, i CSI sono al primo posto della classifica italiana”. Aveva ragione.
Strano a dirsi: mi facevano schifo. Ricordo di aver visto il videoclpi di “Forma e sostanza” e aver pensato:”Ma chi è ‘sto spostato? Ma come cazzo son messi, questi? Ma chi è che può ascoltare di ‘sta merda?”
Mi avevano già spaccato la testa. Non erano belli, ma avevano un fascino irresistibile. E suonavano da Dio.
Poi, un giorno, a Mediaworld, non riuscii a non comperarne il disco, fu più forte di me.
Iniziai dalla fine, con Noi non ci saremo Vol.1 e prosegui con In quiete, acquistato in società con Checco.
Fu una splendida rincorsa verso qualcosa che non c’era più.
C’ero arrivato tardi, ma per fortuna c’ero arrivato.



Anima fiammeggiante zoppica,
zoppica brace, non sa se ce la fa.

E’ come se Giovanni Lindo stesse parlando di qualcosa che continua ad ardere, che continua a vivere, ha ancora un’anima che brucia, ma è prossimo alla fine, non sta in piedi, non ne ha più.
A volte si leggono parole delle quali ci sfugge completamente il significato, sembrano messe lì a casaccio. Suonano bene, fine. Poi ci si accorge che invece ce l’hanno, e profondo, ma così profondo che sono quelle stesse parole a nascondersi e a nascondere quello che significano.
Oltre a questo come le dice, come le pronuncia, come le intercala respirando.
Scorre poesia (come direbbe il Moro), poesia pura: non vale. E non è poesia solo per i due motivi di cui sopra, che già di per loro basterebbero, lo è anche perché Giovanni Lindo sta parlando di sé stesso, e lo fa inconsciamente, perché solo nella sincerità più incontrollata ci si riconosce per quello che si è e si ha il presagio di cosa sarà.



Appare la bellezza,
mai assillante né oziosa,
languida quando è ora,
e forte, lieve, austera.
L’aria serena ma di sostanza sferzante

Durante il concerto a La Pietra, Lucagiblèin, che non li aveva mai sentiti, mi chiese cosa volesse dire questo verso. Al tempo non seppi spiegare ma iniziai a pensarci. E dire che ero nel posto giusto per afferrare il concetto al volo, ma vabbé, essere al posto giusto nel momento giusto a volte non è sufficiente: bisogna anche accorgersene.

Immagino di essere in montagna in pieno inverno.
L’aria è gelida e il cielo sereno è di un blu terso come solo a Gennaio riesce ad essere, la luce accecante del sole è amplificata dal candore della neve.
Forse è proprio lì che appare l’incanto.
Non è assillante perché è una bellezza tranquilla, non è oziosa perché è quasi al massimo di ogni sua possibile manifestazione esteriore. Può essere languida, ma non è quello il caso.
E’ forte (è la montagna), è delicata (è la neve), è rigorosa (è l’inverno).
E poi provo a respirare e mi si gelano i polmoni: di sostanza sferzante.
Non so, forse vuol dire questo. Forse no.

Dello stesso disco facevano parte Unità di produzione, Forma e sostanza, Ongii, Gobi, Bolormaa, Matrilineare e M’importa ‘na sega. Accade e Vicini erano le più brutte del lotto. Ci si rende davvero conto che Silvestrin non aveva sbagliato una parola del suo commento e quel giorno andava segnato sul calendario non solo perché una cosa del genere non sarebbe mai più successa, ma anche perché era uscito un album che, se perfetto non era, ci andava molto, ma molto a teso.

Che cos'è il genio?


Questo pub non è mai stato bello.
Era brutto quando avevo 15 anni e, nonostante cambi di gestione, continua ad esserlo ora che ne son passati altrettanti.
Oltretutto è in un quartiere loschissimo che conosci bene solo se lo frequenti abitualmente, e lo frequenti abitualmente solo se ci lavori, e se ci lavori vuole dire che c’è chi nella vita ha avuto più fortuna di te.
Suonano alcuni nostri amici, andiamo là per vederli.
E’ un sabato anomalo, come anomalo è il nostro terzetto.
La formazione è composta da me, Dom e il giovanissimo Cavva.

Tra il cortile e l’ingresso c’è un antro che ripara i fumatori quando è inverno o quando piove. C’è un divanetto, mi ci siedo e fumo una sigaretta. Cerco il portacenere, è sul tavolo di alluminio davanti a me. Come lo prendo in mano mi accorgo di un pacchetto di Marlboro appoggiato lì a fianco. E’ semiaperto. Sembra che dentro ci siano ancora alcune sigarette. Penso che sia impossibile, tutto intorno non c’è nessuno, sono solo a fumare in quell’antro, il pacchetto non può essere pieno. Immagino che sia il tossico di turno che dopo averle mozzate per farcirne altre più speciali, abbia lasciato i cadaveri dentro al pacchetto.
Finisco di fumare e ripongo il posacenere sul tavolino. Involontariamente lo urto contro il pacchetto che si apre ulteriormente, di quel poco che mi permette di vedere che è ancora praticamente pieno, ne mancheranno due o tre, a spaccare il mondo.

Cazzo.
E’ un pacchetto di Marlboro rosse, paglie pregiate, e io sto finendo le mie. Oltretutto per la quarta volta ho smarrito la tessera sanitaria e se prima di andare a casa finisco le Winston sono ufficialmente nella merda. Quel pacchetto mi fa gola.
Tuttavia rubare non si può.

Sì, però io sto finendo le mie.
Sì, però le volte che io ho dimenticato pacchetti qua e là non ne ho mai trovati due o tre a rimborso della mia disattenzione.
Vaffanculo, me le fotto e tanti saluti.

No, anzi, faccio così. Torno dentro, aspetto cinque minuti, esco di nuovo, se sono ancora lì me le prendo. Mi sembra un ragionamento fatto con usta. Se tra cinque minuti nessuno le ha toccate, e se quei cinque minuti li sommo ai dieci in cui son stato fuori, significa che il proprietario del pacchetto è andato via o le ha date per perse.

Rientro, spiego la situazione a Cavani.
Anche lui è della mia stessa idea.
Passano cinque minuti, usciamo, il pacchetto è ancora lì.
Cavva è molto giovane, è già uno sbandato, ma è pur sempre giovane, e il locale è veramente losco, lo vedo intimorito nel commettere reato.
“Aspettiamo altri cinque minuti, Zé”.
Torniamo dentro, spieghiamo la situazione a Dom e decidiamo di giocare d’attesa.
Intanto ci godiamo la fauna del posto, assolutamente fuori dalle grazie dell’ultimo di tutti gli Dei.

  • C’è un quarantenne riccioluto che gira per il locale con un cappello da cowboy e una camicia bianca che sotto quelle luci risulta fosforescente. Importuna due categorie di clienti: le minorenni e il clan di calabresi bassi, tozzi e dalle spalle strette che s’aggirano per la pista con fare molto più che sospetto. Mi viene in mente “A prova di morte” di Tarantino, mi ricorda Kurt Russell.Lo so io. ‘sto spostato non ha bevuto proprio niente, fa sol finta d’essere patocco, tra un po’ si porta a casa una monella e sol Dio sa quel che succederà. Schifoso.
  • Ci sono i ragazzini che hanno suonato prima dei nostri amici. Sono così carichi che ci provano con ragazze che hanno dieci anni più di loro. Cerco di entrare nella loro testa. Non è che se son meno alte di voi allora son più giovani e siete autorizzati a lanciarvi in approcci disperati. Portate rispetto per queste giovani matrone che di vita ne hanno vista più di voi, mentre voi tra un quarto d’ora massimo sarete in bagno a sgattare perché per ballare da soli in mezzo a una mattonella -come state facendo voi- bisogna essere degli idoli o bisogna essere duri da radere
  • Ci sono famiglie con tanto di figliolanza al seguito. Una scena imbarazzante. Questi poveri bambini la cui infanzia verrà distrutta dalla visione di questo locale e di questa gentaglia mi fanno tenerezza. Con quali valori potranno mai crescere se non quelli della criminalità clandestina?
  • C'è un tizio vestito da Ispettore Gadget con tanto di gabardine grigio che se ne esce da locale in tutta fretta, chissà cos'ha da nascondere.
  • C’è un portoricano. No, forse portoricano non è, ma è strano forte. Faccia smunta, carnagione scura, capello lungo e sciolto, unto. Indossa abiti sportivi, sembra che sia uscito direttamente dalla pagina casual del catalogo primavera/estate 1997 di Postalmarket. La risposta etero-caraibica a Mel C, la Sporty-Spice. Non ha nemmeno la giacca anche se fuori c’è freddo, ed è solo. No, non ci credo che sia solo, è tutta una montatura. ‘sto qua fa coppia fissa con il sosia di Kurt Russel, gli fa da palo. Il portoricano qui dentro non c’entra proprio un cazzo, ce lo ha portato Kurt perché qualcuno depisti l’attenzione da lui.
  • C’è un vecchietto brizzolato con la camicia sbottonata. Avrà 60 anni, aspetta solo che abbia termine l’esibizione live della band per poi buttarsi sopra al primo tavolo e recitare la parte del più anziano cubista del Comprensorio Ceramico. Che pena che mi fa. Andrà avanti a chalis, sarà senza famiglia e se ne ha una non voglio pensare a come possa essere messa. Bene che gli possa andare, a tarda notte andrà a travestiti, ma proprio bene che gli possa andare.
  • Infine i gestori. Sono in 7 dietro al banco. Troppo facile capire come è andata. E’ una famiglia del Sud ad avere rilevato l’attività e ci hanno messo tutta l’allegra brigata: figlio caposala, figlia a far di conto, cugina a servire, zia a far tutto e far niente, zio a spinare, papà a controllare che nessuno distrugga il locale, una sassolese a organizzare tutto perché qualcuno che parli correntemente italiano può far comodo, e mammà a casa che qualcuno bisogna pur che lavi e stiri per la manovalanza.
Ma dove cazzo sono capitato? L’unica cosa che manca qui dentro sono le troie.

“Da come siamo vestiti io e te, a noi probabilmente ci hanno scambiato per due agenti in borghese, Zé”.
Forse ha ragione Dom. Chissà che idea si son fatti loro di noi. In fondo come questa gente è strana per me, io devo per forza essere strano per loro, siamo troppo diversi tra noi. Staranno davvero pensando che siamo della Digos. Dom è cattivissimo, mentre io mi presento con un capello rasato, una giacchettina di pelle nera, lo sguardo attento, e un foulard casual da vero infiltrato.
Un agente della Digos nostrano e ben vestito, ma pur sempre uno sbirro. Mi convinco che se andassi da un cliente qualsiasi ed esibissi velocemente la mia carta d’identità dicendo:”Digos, favorisca i documenti”, i casi sarebbero due: o l’immediata esecuzione dell’ordine senza nemmeno accertarsi che io abbia mostrato un distintivo vero e proprio, o la fuga a gambe levate del cliente stesso.
Fatto sta che se ai loro occhi passo per uno della Digos, forse l’impressione che io ho di loro è -a ben guardare- migliore di quella che loro hanno di me.

Sono passati cinque minuti. E’ ora di controllare se le sigarette che ho mirato sono ancora lì. Usciamo. Sì, sono ancora lì. Ci guardiamo con circospezione e glie ne facciamo su 2 pronti via.
Ci sediamo sul divano a gustarci il furto. Ora mi vendico, dannata Maura Pacifico, lo so che quella volta, in quarta Liceo, che lasciai le sigarette sotto il banco e trovai solo il pacchetto vuoto eri stata tu, l’ho sempre saputo. Adesso so anche io come è fumare con il furto, maledetta.
Nessun possibile proprietario si fa avanti.
Nessuno ci rimprovera.
Nessuno ci minaccia in lingue incomprensibili.
Torniamo dentro, raccontiamo del fatto ad una nostra amica.
Usciamo un’altra volta, ne favoriamo una anche a lei.

Ormai è passata quasi un’ora da quando stiamo giocando a “incula le paglie al fesso”.
S’avvicina il portoricano, parla con Dom.
“Questo è il mio pacchetto. Me lo sono dimenticato qui. Non credevo di ritrovarlo pieno. Non credevo proprio di ritrovarlo”. Dom, per non sapere né leggere né scrivere, dice che non sa niente, che lui non fuma. Cavva è dietro al portoricano, che portoricano non è, sarà un rumeno lampadato, e ride, attento che lo zingaro non lo veda. Io ascolto tutto con finto disinteresse, ma un po’ mi cago sotto.
Questo adesso ci ammazza.
E’ impossibile che non ci abbia visto.
Le volte che siamo usciti era fuori dall’antro con Kurt, a parlare, deve averci visto per forza.
Pace, non ci ha detto niente.
Ma del resto -scemo io- non gli conviene attaccare briga con due della Digos.

“Che cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.”



“Scusa, non è che me ne daresti una che sono rimasto senza?”

Finito il concerto siamo scappati. Senza arrestare nessuno.
Stavano passando “Bad Romance” (nomen omen) di Lady Gaga, la più degna conclusione di una serata così.
Il vecchio brizzolato stava ballando sul tavolo. Fossi stato ubriaco lo avrei raggiunto in postazione e lo avrei mandato via infartuato, senza alcuna pietà di censo o di anzianità. Da bariago i cubi sono tutti miei. Li posso lasciare giusto a Berta, ma sabato ero sobrio, non avevo istinti di auto-indecenza.
Il portoricano stava fumando le sue Marlboro, a breve distanza dal compagno riccioluto. Chissà dove è stato in quell’ora in cui io ho fatto la punta alla sue sigarette, chissà, sarebbe curioso saperlo.
I poveri bimbini erano ancora svegli e probabilmente non cresceranno mai se non nell’illegalità.
I ragazzini della band, dopo aver preso dei “vaffanculo, cresci!” dalle donne del locale, ci stavano provando come disperati con le rispettive pari età, non sapendo che gareggiavano solamente per il secondo posto dato che quella bestia di Kurt era ancora in giro.

Spark + Preludio


SPARK+PRELUDIO from Domenico Guidetti on Vimeo.
Perché non ne ho mai parlato abbastanza.
Una delle più belle esperienze della mia vita racchiusa in 25 minuti.
Qui un'allegra documentazione delle riprese.

Amen

A Chicco, perché mi manca da matti scornarmi con te, stronzo.

Che io, da tempi non sospetti, sia il più grande detrattore italiano di Luciano Ligabue, è cosa nota, famosa e che mi contraddistingue.
Che io, fin da quando è uscito nelle sale cinematografiche, sia fan di questo film è altrettanto risaputo.
Le due cose non s’azzeccano, lo so. Cosa ci volete fare, del resto sono da sempre convinto che le persone più contraddittorie siano anche le più sincere.
Sta di fatto che questa scena è strepitosa, punto e a capo.



Ma non è bella perché è quella che dà il la al più famoso “Credo” di Freccia, è bella perché è tristemente colma di verità, trabocca di realtà, è -come direbbe una mia giovane amica- brensa (cit. Ensy).
Freccia e Boris sono due facce della stessa medaglia: illusioni che riempiono vuoti, e pieni di verità che distruggono le illusioni stesse. Gli amici al tavolo sono spettatori, spettatori così umili che per me schierarsi con Freccia o con Boris diventa un obbligo, un dovere morale verso me stesso.
Ligabue non ha sbagliato niente in questo film, NIENTE. E soprattutto non ha sbagliato niente in queste due scene.
Freccia, prima di recitare il suo credo si limita a rispondere a Boris che è “un po’ stronzo”. Attenzione: non gli parla contro, non lo aggredisce, non lo manda a fanculo.
E’ quanto di più carino possa rivolgergli, specie dopo le reazioni degli altri amici.
E’ quanto di più simpatico e distaccato possa replicare dato che sarà l’unico a dire in cosa crede veramente lui.
E’ come dirgli “lo sai tu, lo so io, ma loro no. E magari per loro era meglio non saperlo. Perché sei stato così spietato da spiattellargli in faccia quello che loro, per fortuna o forse per sfortuna, non vedono?”
Il monologo di Freccia è una conseguenza, è cercare di ristabilire l’asticella dell’equilibrio del vivere che Boris ha spostato troppo verso il cinismo. Peccato che si trasformi nella solita, ma non per questo banale, morale cristiana alla Tolkien del “chi dà speranza agli altri difficilmente ne tiene per sé”.

Ognuno di noi può costruirsi “credo” ad hoc, sostituendo uno via l’altro gli eroi di Freccia, sostituendo Bonimba con Kakà o Keith Richards con Jonathan Greenwood (rimane la Telecaster, ndr). Non solo io me ne sono bellamente rotto il cazzo così come mi sono rotto il cazzo dell’Indie Rock, ma è anche mancanza di fantasia, pochezza, velleità di stare bene, di credere perché credere non costa niente e costa ancora meno riciclare le idee degli altri. E’ raccontarsela e cantarsela da soli.

Quando hai 17 anni il discorso di Freccia è quanto di meglio si sia mai sentito pronunciare in emiliano dai tempi del Compagno Brusco che dopo essersi inciampato dice a Don Camillo “Sono scapuzzato”.

Quando invece ne hai 28, e tre quarti delle previsioni di Boris si stanno avverando, non vale più: ci si sente quasi patetici ad avere ancora degli idoli e baratteresti volentieri “il rock'n'roll, qualche amichetta, il calcio” con Ilaria, i pesci gatto o che cazzo ne so.

I “quelli come me” che a 17 anni sono d’accordo con Tito nel mandare a fanculo Boris, a 28 anni s’ingastriscono molto meno ad ascoltarlo e purtroppo fanno la stessa faccia di Iena che sa già che, oltre a tutti i flash forward dell’antipatico di turno, qualcuno di fidato gli piomberà pure la ragazza. Bene che gli vada, gli succederà solo quello. Paradossalmente a Iena andrà di lusso. Alla fine della fiera lui sembra felice nonostante tutti i nonostante. Cammina sotto i portici, abbracciato alla sua donna. Come finale più dolce che amaro non è male.

La stessa replica di Tito che rimette a Boris come sia facile dire agli altri come dovrebbero vivere o che quelli che critica siano tutti, nel bene o nel male, personaggi che hanno scelto come stare al mondo, è debole, troppo debole. Meglio stare con Boris o coi matti di paese? Se vinco a pari o dispari prendo Boris, voi tenetevi pure i matti che son più belli da vedere che altro (lo dico con rispetto e purtroppo con cognizione di causa).

Il discorso è che forse bisognerebbe stare a media via tra le rovesciate di Bonimba, i riff di Keith Richards eccetera, e lo Zodiac per le gite sul Po’, i tortelloni la Vigilia e Ilaria. Non si sbaglierebbe di molto.
Del resto capita anche ai migliori di pareggiare.

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