"E montagne fin quanto ne vuoi"

Quando Giovanni Lindo ne parlò alla presentazione di “Bella gente d’Appennino” io rimasi incantato.
Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni (Reggio Emilia, 1920 - Reggio Emilia,1952), è un illustre sconosciuto scrittore di Reggio Emilia, nato in città da madre e padre cerretani, ossia dello stesso paese di Ferretti, Cerreto Alpi.
Silvio, nome che richiama il latino Silvus, bosco, immagine della patria di concezione. Arzo, sostantivazione del dialettale Arzan, Reggiano. E D’, una sorta di titolo nobiliare.

Ferretti fu chiaro e disse pressappoco che: ”Le parole non hanno padroni, nemmeno alcune delle mie.”
E quel che descrisse dopo fu più o meno la stessa scena di Jamal che riprende gli scritti di Forrester per trovare parole sue, storie sue. Ovvero Ferretti che racconta di come, affascinato dagli scritti di Arzo, avesse preso a leggerlo, a citarlo, a farlo proprio.
Dovevo per forza avere anche io CASA D’ALTRI, il suo libro (postumo) più importante.

L’ho pagato 13,50€ comprandolo su ebay e ritirandolo per contrassegno postale.
Ho aspettato due settimane prima che m’arrivasse: col cazzo che gli lascio un feedback positivo al venditore.
E' arrivato il postino mentre stavo mangiando e speravo che nessuno mi rompesse i coglioni, niente da fare.

L’ho letto in un’ora e un quarto, in pausa pranzo.
Non è molto lungo, anzi.

Eugenio Montale lo ha definito "un racconto perfetto".
Su come è impostata la trama, non credo ci sia niente da aggiungere oltre alla nota finale del recensore. "...fino a lasciare il lettore faccia a faccia con una verità da ascoltare con gli occhi girati dall'altra parte".



Fino ad oggi era Fenoglio il mio scrittore italiano preferito.
Oggi il suo trono ha scricchiolato.
E' come se D'Arzo fosse lì davanti e ti parlasse, e guai a perdere anche solo una singola parola. Devi stare attento, concentrato, non devi mollargli neanche un respiro. Non è solo la storia che ho dovuto rileggere perché nell'avidità della lettura avevo smarrito dei passaggi fondamentali, ma anche le descrizioni sono superiori alla norma.

Non vale arrivare primi e non dirlo a nessuno.

"C'è quassù una cert'ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia ,e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre s'affacciano agli usci con occhi che sembrano i nostri.
Allora mi vien sempre di più da pensare ch'è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa.
Credo di avere anche il biglietto.
Tutto questo è piuttosto monotono, no?"
(Casa d'Altri, Silvio D'Arzo, Edizioni Nuages)

"Dallo stagno mi voltai per guardare giù in basso. Sette case. Sette case addossate e nient'altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi.[...] -Ecco tutta Montelice- dissi. -Tutta quanta e nessuno lo sa-"
(Casa d'Altri, Silvio D'Arzo, Edizioni Nuages)

Nota a margine.
Montelice non esiste, è un nome di fantasia.
Silvio D'Arzo in realtà ha parlato di Cerreto Alpi.
Il problema è che a Cerreto Alpi non c'è mai stato, per lo meno non dopo essere messo al mondo, a Reggio Emilia città.
Fa strano, ma è così.
Era casa d'altri, non sua.
Era la vita di altri, non sua.
Ma le ha descritte e romanzate così bene che c'è voluto un altro cerretano, e che cerretano, per accorgersi della magia.

Ovunque

Non è stato un singolo per cui non è possibile inserire un video originale, né si trovano live di pregio acustico e visivo per cui posto questo.



Dalla pagina di wikipedia di Alberto Ferrari, leader della band. Alberto ha anche curato gli arrangiamenti iniziali e ha scritto la maggior parte dei testi delle loro canzoni; proprio i testi da lui scritti sono stati spesso oggetto di critica per la mancanza di contenuti. A proposito Alberto ha tuttavia più volte dichiarato di scrivere testi esclusivamente in funzione della melodia e della musica, affinché le parole diano soltanto "colore al disco", senza quindi raccontare storie o trasmettere qualche significato preciso. I testi si trovano quindi su un piano secondario.

Mi permetto di dissentire.
'sti gran cazzi!
Non è solo dire "ovunque sei ci sei" che di per sé può sembrare una lirica alla Fiasco Rossi, ma in realtà non lo è proprio. Anche "mi spazzi via e mi vedo volare lontano" è una perla di rara bellezza che chiosa nel miglior verso del pezzo: "che male fa rivedermi in me".
Mettiamola così. Se questi testi danno solo colore alla melodia e se non hanno contenuti, allora c'è un sacco di gente che parla e scrive a vanvera.

Poi sarà che adoro come suona la chitarra, sarà che il batterista picchia come un fabbro, sarà che il Rickenbacker di lei è sempre un bel vedere, sarà che ho assistito a dieci milioni di loro concerti, olte e non m'hanno mai deluso, ma io per questi ragazzi vado ai matti.
Forse sono il più grande gruppo italiano in circolazione.

L'anello

Lo portai per qualche anno. A dire il vero, non ricordo neppure nell’anulare di quale mano. Rammento però che mi aveva lasciato un segno su tutto il lembo di pelle contro cui batteva. Un segno grigio, ossidato.
Le cose cambiarono, le cose finirono.
Me lo tolsi e lo rinchiusi in una scatola da scarpe insieme a tutte le altre cose che era più conveniente dimenticare. Fotografie, lettere, quaderni, pupazzetti, regali vari, braccialetti, depliant di luoghi di vacanza, biglietti di aerei, treni, alberghi, partite, concerti.
Poi quell’anello tornò buono.
Temevo di non trovarlo più, di averlo gettato per rabbia da una qualche parte, ma era ancora lì, in fondo alla scatola delle Tiger in cui l’avevo confinato.
Ma non lo misi al dito. Decisi di usarlo come ciondolo, come lo portava Frodo. Che rappresentasse un potere ed un fardello.
Oltre a questo, anche la forma doveva accompagnare la sostanza: si trattava dello stesso anello, si trattava del simbolo della stessa storia interrotta che veniva ripresa, ma che non poteva essere uguale a prima.
Devo sempre manifestare esteriormente quello che mi accade dentro. E’ in base allo stesso principio che decido come tagliarmi i capelli, come farmi la barba, quali scarpe indossare, come e quando fumare una sigaretta.

In seguito anche quella storia si chiuse.
Slacciai le cerniere del ciondolo e appoggiai l’anello su uno scaffale. Non volevo rimetterlo nella scatola da scarpe. Era diventato tale e quale all’anello di Frodo. Me lo ero tolto di dosso, ma non riuscivo a toglierlo dallo sguardo e dalla vicinanza. Dovevo saperlo mio. Portarlo mi aveva indebolito, levarmelo mi aveva distrutto; ma perderlo m’avrebbe finito e nascondendolo mi sarei tradito.

Sono riuscito a non guardarlo per tanto tempo, a dimenticarlo.
Dopo parecchi mesi. una sera, davanti al computer, sento un rumore. Un suono chiaro, inequivocabile. L’anello era caduto per terra. Era come se la mente, seppur distratta, non potesse combinare al tintinnio metallico percepito nient’altro che non fosse il suono dell’anello che sbatte contro il pavimento. Quello stesso anello che avevo lasciato per mesi sullo scaffale, di cui avevo perso memoria.
Guardo per terra sulle piastre di pavimento a vista, quelle libere dall’arredamento. Non c’è niente.
Guardo allora sullo scaffale. Non c’è nessun anello. No, mi devo essere proprio dimenticato tutto. L’avrò riposto insieme a tutte le altre cose nella scatola delle Tiger dopodichèmi sarò scordato pure di questo. Decido allora di indagare e di aprire la scatola contro tutta la voglia e con tutto il magone di questo mondo. Non c’è. Non è lì. Impossibile. Se c’è deve essere nella scatola, perché sullo scaffale non c’è, e alternative non ne rimangono.
Di nuovo osservo per terra, ma questa volta con più attenzione. Niente.
Eppure l’ho sentito, sono sicuro.

Mi rendo improvvisamente conto di quanto irreale fosse quella situazione. Stavo andando contro ogni logica. Stavo cercando qualcosa che avevo sentito cadere senza che ci fosse alcun motivo per cui potesse anche solo muoversi da dov’era. Se davvero era sullo scaffale, allora doveva essere ancora lì, non poteva essere caduto. La forza di gravità ha leggi precise. Perché l’anello cadesse sarebbe dovuto cadere anche lo scaffale. Anche le pareti, se per questo. Anche la casa, allora.

Rimane da guardare sotto i mobili. Magari è finito lì sotto. Ci guardo, ci guardo meglio, lo trovo.
E’ sporco, impolverato, scuro. A osservarlo sembra vecchio di anni. Invece racconta una storia che non è finita che da qualche mese.
Ora ricordo. E’ sempre stato sullo scaffale, come un piccolo soprammobile inutile, è sempre rimasto lì, ed essendo all’altezza del mio sguardo, l’ho visto per tutti questi mesi, ma non mi sono mai fermato a guardarlo.

Torno in me. Realizzo che l’anello è caduto senza motivo. Non era in bilico, non ha subito colpi. Non ha senso, ma è andata così. Mi sto dicendo la verità ma anche io faccia fatica a credermi sincero.
Penso dunque a un segno.
Buono? Cattivo? Per me? Per chi? Telefono? Mi informo? Chiedo? Cosa è successo? Cosa c’è dietro?

Forse niente, solo una fervida immaginazione.
Forse tutto per chi, come me, crede che niente ac-cada per caso.

Anche se la tentazione è forte decido di non fare niente, di non scomodare amici, conoscenti, affetti vecchi e nuovi, di non costruire castelli in aria. Davanti ad una circostanza illogica scelgo una via pratica.
Immaginare che niente ac-cada per caso e che semplicemente fosse ora di metterlo via, quell’anello. E chiudere quella scatola a doppia mandata, sperando che neppure quella cadesse dal suo scaffale, altrimenti dopo non avrei proprio più saputo cosa pensare.

Voglio una pelle splendida

Le canzoni sono peggio delle puttane.
Ti si attaccano addosso e tu in quel momento, in quei momenti, le adori, ti lasci andare, fai l'errore di innamorartene. Non senti di meglio, non vedi di meglio. Poi il tempo passa e, proprio perché tutto lascia traccia, in quelle stesse canzoni che avevi amato rivedi le cose che t'eri giurato di dimenticare. Forze di causa peggiore te le mettono in croce senza pietà, senza fare prigionieri. E allora non so voi, ma io quelle canzoni non le ascolto più, metto al bando loro e metto in castigo me stesso impedendomi di infilare quel cazzo di cd nel lettore e di schiacciare play.
Non voglio ricordi, non voglio che le melodie mi riportino in testa sentimenti che non dovrei più avere.

E' difficile sancire patti con le canzoni, è quasi impossibile giurarsi amore eterno, bisognerebbe solo promettersi che qualsiasi cosa possa accadere rimarremo uniti, "saremo un'altra cosa" ma non ci separeremo.
Mica facile.



Grazie al Dio della musica e grazie alla legge dei grandi numeri c'è sempre l'eccezione che conferma la regola.

Voglio una pelle splendida
c'era prima di tutto.
C'era da quando l'unico mio interesse era passare più tempo possibile nei negozi di dischi o nella mia cameretta imbracciando una chitarra con cui non ero nemmeno in grado di tirare giù la più patocca delle canzoni di Agnelli.
Al mio primo vero appuntamento ricordo nitidamente il falsetto di Manuel.
Alla mia seconda grande batosta non ebbi paura a riguardarla in faccia, nella sua versione melodiosa, quella di Siam tre piccoli porcellin e battere le mani alla fine del pezzo, da solo, sempre nella mia cameretta.
E poi anni e anni di concerti con affetti e amici e, fondamentalmente, abbiamo sempre aspettato che suonassero questa.
Ancora, trovarsi in un bar a cantarla e a ballarla con ragazze e ragazzi che, come te, l'hanno sempre adorata.

Poi, tutto d'un tratto, accorgersi che son passati 13 anni e che in 13 anni, nonostante t'abbia accompagnato in ogni istante -bello o brutto che fosse- che andava vissuto, non le hai mai voluto male, non hai mai smesso di ascoltarla.
Ti accorgi che ci puoi leggere quello che vuoi nelle parole di Agnelli, perché finali che non facessero male li abbiamo sperati tutti. Notti nere cristallo passate a scegliere le carte da giocare le abbiamo mal dormite tutti e anche quando ne avevamo in mano 40 di carte, e anche quando le persone contro cui esibirle giocavano a carte scoperte, siamo riusciti comunque a calarle male. Quelle "certe domande" che era meglio non farsi mai le abbiamo maledette tutti. E nemmeno ci manca esserci riconosciuti colpevoli ma essere stati così arroganti da aver sperato che i ruoli si fossero improvvisamente invertiti e che fossero gli onesti a baciarci, a baciare Giuda.


Uno può leggerci quello che vuole.
Io a questa canzone non ho mai chiesto più di un pensiero superficiale che rendesse o mantenesse, di volta in volta, la mia pelle splendida.
Io ci ho sempre letto solo questo.

tum tum chà...

tum tum chà...

tum tum chà..
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tum tum chà...
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