Le cose importanti sono ok

Ho impiegato molto tempo a scrivere questo intervento, che alla fine altro non è che un insieme di sproloqui buttati giù alla va là che va bene.

Nasce tutto qualche settimana fa, quando un amico mi ha chiesto per sms come andava. Non era una domanda scontata ma opportuna e pertinente perché stranamente capitava al momento giusto, quasi fosse una piccola magia, una strana chimica tra sentimenti e fine tecnologia Nokia.

In verità: quante volte si spera che qualcuno ci chieda quepasa?
Poche, forse perché se "a domanda: risposta", ne va che "a domanda scontata: risposta scontata".
Si replica che va tutto bene anche se piove col sole, che va tutto bene anche se ci si è solo persi di vista. Manca la passione per intrattenere lunghe discussioni che non arricchiscono nessuno: meglio tacitare uno zero a zero e terminare le ostilità di conversazione prima che inizino, nessuna bella partita a chiacchiere da disputare.
È bene non dare preoccupazioni di noi agli altri, non perché non abbiano da parlare, non sia mai! ma perchè diventa pesante mettersi lì a raccontare cosa va cosa non va cosa ci piace cosa non ci piace, alla fine saremmo solo noi a mettercene. Poi che in testa abbiamo più pensieri che capelli, amen: l'importante è che continuino tutti a parlare dei capelli, e non dei pensieri.

"Come va?"
"Tutto bene, grazie, e te?"


Tuttavia l'amico che me lo ha chiesto non meritava una risposta stupida, se la meritava sincera, se non altro perché non poteva sapere che se avessi potuto replicare apertamente non mi sarei fermato a un bel ragatuttorego.

Ci ho pensato tanto come se fossi di fronte ad una domanda cruciale e dopo un po' gli ho risposto:"Le cose importanti sono ok".
Una volta inviato il messaggio ho realizzato che valenza significativa avesse la mia replica. Addirittura volevo riprendere in mano basso o chitarra e scrivere qualcosa partendo da queste parole: mi suonavano bene. Pur non avendo una rima o un'assonanza che fossero due, stava tutto bene: filavano da Dio. E pensare che avrei addirittura potuto scrivere tutto con il T9 talmente erano parole patocche.
Una frase sibillina e interpretabile, ma onesta, come dire che ero sul pezzo, che ero ancora a galla, che per il rotto della cuffia ci stavo passando per l'ennesima volta.
Come dice uno che lavora con me:"Siamo allineati e coperti?"; sì, più o meno lo siamo.

A trent'anni pesa non sapere quello che si vuole, figurarsi quello che si dice. Eppure quanto tempo si spreca a (e quanto tempo passa nel) ripetere le stesse cose, a dire banalità, a scambiare battute ovvie su quanto faccia caldo, quanto sia difficile imparare un nuovo mestiere o, che so, aprire un'attività improponibile di una qualche vendita al dettaglio di armi e di film post-apocalittici.
Un universo di comunicazioni sottintese che diventano quasi indispensabili, perché altrimenti il rischio è quello di diventare sgodevoli o di sembrare introversi.
Una seduta dal dentista può garantirti favelle con i nuovi colleghi per tre giorni senza mai correre il rischio di scadere nel ripetitivo.
Addirittura sono stato impiegato in almeno venti sketch di dialogo surreale quando mi son trovato a raccontare dell'esplosione della batteria della mia macchina: sembrava stessi raccontando loro di un'impresa epica, non so, la quarte serie delle avventure di Gesù Cristo, quella mai andata in onda su Fox, dove il Nostro rimane senza batteria proprio nel deserto del Nevada (da quell'episodio nasce la Quaresima, quella apocrifa, di cui nessuno parla mai).

Che sia il male dei trent'anni? Che sia il male di aver visto un mondo stupendo per troppo tempo (quello dello studio, dell'università, del Liceo con la T maiuscola di Alessandro Tassoni, dei Mondiali vinti in Germania: insomma, i tempi di Carlo Còdga) e accorgersi, dopo cinque anni che quel mondo lo si ha abbandonato, che una volta i treni arrivavano in orario per davvero (mentre i trenta non sarebbero mai arrivati) e che si faceva di tutto pur di perderli, pur di -al massimo al massimo- entrarci alla portoghese?

Non so, è come se si esaurisse la voglia di fare un sacco di cose, cose di cui prima si aveva sempre sbrusia, quasi fossero state all'inizio della lista, come se si ribaltasse tutto e la nuova equazione verificata divenisse:"Se ti fai poche domande avrai tutte le risposte".



Passata qualche settimana da quel messaggio ero a pranzo con un mio amico e, parlando dei più e dei meno del nuovo mestiere, gli ho detto che è molto triste scoprire come uno si trovi confinato in un ambiente che è pur sempre -per quanto possa essere piacevole, e in cui ci si trovi anche bene a lavorare- un furto di tempo, di benessere, di sorrisi.
Otto ore in cui si vedono le giornate volare via e scivolarti addosso. Da un lato una cosa bellissima, significa che il lavoro passa e non pesa più di tanto; dall'altro lato la consapevolezza di aver capito una frase di Shakespeare che m'ero appuntato ma che non ero mai riuscito ad intendere:"Ho sciupato il tempo e ora il tempo sciupa me, perché ha fatto di me il suo orologio".
Sì, perché intanto invecchi e ti rendi conto che sono più le cose che crescono intorno a te di quelle che vuoi fare, di quelle che devi ancora fare, come se tu fossi il gnomone della meridiana e il tempo fosse il sole.
Nell'esatto secondo in cui ho finito di illustrargli questa immensa verità mi sono accorto di essermi eretto a nuovo paladino della banalità, la stessa contro cui mi stavo apertamente schierando, la stessa che aveva mosso la voglia di provare a dare un verso a questo flusso di coscienza, a questo reflusso di incoscienza.

Saranno due settimane in questo preciso istante, che provo ad aggiungere altre parole a questo post. Due settimane in cui provo a cercare un attimo da dedicare alla scrittura (anche se solo di un post da blog), perché scrivere è l'unico momento in cui trovo uno spazio senza obblighi di tempo, senza che debba guardare le lancette dell'orologio del Milan che è lì da quando sono piccolo, e che rimarrà lì anche se il Milan, ho deciso, non lo andrò più a vedere.
Questo non significa -si badi- che io speri che quest'anno calcistico sia stato migliore del prossimo, anzi, spero sia peggiore del 2012, ci mancherebbe! ma io ho già dato anche al Diavolo, non gli ho regalato proprio niente (come dice quel casoumano di Vasco), gli ho dato dei bei danée.
E anche questo, C.V.D., è un discorso scontato.

Poi il nuovo lavoro.
"Bello, eh!" come diceva Guzzanti.
Bello stare lontani da quella testa di cazzo del mio vecchio titolare che continuo a sperare che muoia domani, ma è curioso come certe cose rimangano sempre uguali.
Infatti, come quando lavoravo all'IV-MD, parto da casa mezzora prima, mi fermo in un parchetto a fumare due sigarette, a dare ordine ai pensieri, che mai come a quell'ora del mattino sono più dei capelli, poi timbro e via, e... neanche questa volta ce la cavo ad arrivare prima della mia collega, che sembra la monella che a scuola lisciava la coda al professore, povera lei. E povero me, che mi metto addirittura a fare gara con lei.
Poi la giornata: di dieci cose che faccio, l'unica su cui mi fanno la punta è quella che ho sbagliato minimamente, trasmettendomi così una straordinaria voglia di mandare le colleghe a fanculo e far loro appunti sul fatto che, viste le caldane, è ora che trovino un metodo alternativo al cazzo per smaltire il nervoso, che non sono io il loro pungiball, nonostante sia pur sempre l'ultimo arrivato e, ai loro occhi, anche l'ultimo degli stronzi.
Otto ore in cui ho in mente tutto, al netto però di quello cui dovrei stare attento.
Che scadenza paga questa gente, cosa non pagano, che rata è, cosa mettere in dare, cosa mettere in avere, telefonare all'avvocato Paololorenzi... guardare fuori, le colline sopra Fiorano, e accontentarsi delle salse di Nirano e di Rocca Santa Maria per spedire la mente in orbita, tornare con gli occhi carichi e avidi, alle immagini degli ultimi viaggi fatti, in altre colline, in tutt'altri contesti con altri affetti, che si sono aggiunti alla mia vita alla stessa maniera di Kevin Prince Boateng e Ibra al Milan Campione d'Italia.

E pensi che ti è andata di lusso, che non hai nulla di cui lamentarti, un po' come Tognazzi in Singore e signori, buonanotte. Beh, non proprio così, ma il significato è quello, ossia che le cose importanti sono ok, che a casa va tutto bene, che al lavoro anche, che gli affetti vanno benissimo.

È il resto che viene a noia, gli abbuoni passivi delle amicizie, della quotidianità, della vita da bar, della vita su facebook, delle parole a caso della gente. Abbuoni, surplus, che fanno grado, che facevano grado, ma che poi stancano.
Rendersi conto che più si va avanti e più si sta meglio in due, perché:
A) Come è vero che ognuno basta a sé è anche vero che il conto non torna;
B) Condividere rapporti di amicizia a trent'anni è molto più difficile che condividere insulse gallerie di foto su facebook, è molto di più in ogni senso. I tag non certificano amicizia ma solamente un'estemporanea comunione di mille mila bottiglie di cui si è visto il culo, più per mascherare la vecchiaia che per vero utile o diletto.
Ma anche queste, ahimè, sono frasi da Capitan Ovvio, un Capitan Ovvio un po' più coraggioso del solito, se vogliamo, ma niente di più né di meno di un incrocio tra un Tyler Darden che vuole mettere su famiglia e l'ultimo dei ragionieri del Credem.

Vedo la gente frocia, e non è un discorso fuori luogo: padri di famiglia che son diventati tali, ma che forse, quando han deciso di scegliere questa professione non ne erano poi così convinti. Avevano il difetto di non conoscersi sessualmente così bene come invece avevano (e avrebbero) fatto credere a congiunti e prole, ma che hanno sacrificato all'altare di una vita normale e al di sopra di ogni sospetto, gli scheletri con cui avrebbero riempito tutti gli armadi di casa.
Alla larga però da facili insinuazioni! NON SONO FROCIO, NON STO PARLANDO DI ME!
Tuttavia, difetti di conoscenza di noi stessi li abbiamo tutti, e più che farci poche domande per avere tutte le risposte (si legga sopra), ci diamo direttamente quelle sbagliate, invece che distinguere le cose importanti e capire se sono ok o se non lo sono, ci diciamo che va tutto bene, grazie.

Dove eravamo rimasti?
Alla fine di tutte le fiere, a notti lunghe, ad albe stanche, a quel preciso momento in cui dovevamo volare un po' più in alto, e tenerci ben stretti. Siamo rimasti lì, siamo ancora e sempre lì: rischia di calarci il coraggio.
O forse, per dirla con molta meno poesia e molta più prosa, è come se fossimo sempre alla prese con il filo della polenta, che ogni tanto ci divide tra i fenomeni parastatali di provincia che comunque ci rimangono simpatici, e quella velenosa voglia di rinnegarli, per mettere la testa a posto, fare carriera, e manifestare contro i cocahavana pur di far credere ai posteri col nostro stesso sangue di essere stati perfetti quand'era il nostro turno.
Altre volte il filo ci divide tra i sogni ad occhi aperti che abbiamo o che vorremmo presto avere e la triste ma abbordabile prospettiva di rinchiudere tutto questo in una reflex che prima o poi impareremo ad usare.
Infine ci divide tra capodanno tutti i week-end e la gara con le proprie colleghe a chi è più diligente sul posto di lavoro.
A gh'è quel ch'a trasa!

Non mi chiamo Emanuel Gavioli, non ho venticinque anni, ecc... mi chiamo Simone Ferrari, detto Zeman, ho trent'anni, e parecchie idee confuse. Ma le cose importanti sono ok.
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