Vangelo Yankee – Le mie istruzioni per l’uso

Di seguito riporto quanto detto/letto alla serata del 06/12/15 allo Spazio Evasione di Pavullo.

Poco dopo che Jean tornò dall’America mi inviò una bozza di quello che sarebbe poi diventato “Vangelo Yankee” ma che al tempo si intitolava ancora “12 Stati di Allucinazione”, affinché gliene dessi un feedback. Tra la sua prima mail e la mia risposta definitiva, la conversazione fu intervallata da parecchie mail interlocutorie perché, fondamentalmente, non trovavo il coraggio per dirgli che non mi era piaciuto.
Capisco bene che dire così non è una buona promozione, ma anche la cattiva pubblicità è buona pubblicità, specie se soggetta ad un intervento di redenzione non dovuto a quello che è accaduto. Con questo voglio dire che se sono qui a smentire me stesso non è per le circostanze drammatiche che hanno accompagnato l’uscita del libro ma per altre ragioni.



Tuttavia, andiamo con ordine.
A me la prima stesura che mi aveva inviato Jean non aveva entusiasmato perché credevo fosse una “summa”, un compendio di tutte le sue precedenti esperienze artistiche, qualcosa, per dirla in dialetto, di “beli vèst”. Io non solo conoscevo lo stile di Jean per i libri che aveva già pubblicato ma anche e soprattutto perché entrambi, da anni, eravamo fruitori del Forum MEF, autentico laboratorio culturale, il social mio e di tanti cari amici prima che comparisse Facebook, in cui ci leggevamo quotidianamente. Post leggeri e trattati di filosofia, da quella più spiccia a quella più profonda.
Ebbene, avevo avuto l’impressione che non ci fosse nulla di nuovo in “12 Stati di Allucinazione”, anzi.
Poi quando mi è capitato di rileggerlo, il mio punto di vista si è fatto differente. 
Per due motivi. 
In primis perché nel mondo dell’arte c’è un’equazione sempre verificata, ossia che le cose belle hanno bisogno di un tempo di maturazione. Prendiamo una canzone: se al primo ascolto piace, al quarto o al quinto avrà bellamente disintegrato i coglioni al 99% della popolazione mondiale. Se invece richiede un tempo di maturazione, costringe a sospendere il giudizio, pone titubanza, ripensamenti, ecco che si insinua piano piano, fino a diventare prima interessante, quindi carina, poi bella e, infine, straordinaria. Non so, exempli gratia di tutt'altro genere: un buon vino rosso per diventare nobile ha bisogno di decantare.
In secondo luogo penso che poter giudicare qualcosa occorra avere una pietra di paragone con cui confrontarlo/a, ancora meglio se personale. Io quest’estate ho fatto un insolito viaggio di nozze in giro per l’Europa, toccando alcune capitali e altre città X dislocate a caso around the map. Esattamente come Jean, avevo un taccuino su cui vergare i miei appunti di viaggio, in modo tale, una volta a casa, da sbobinarli. Così, rileggendo e ricopiando, avrei potuto rivivere tutto ciò che avevo visto e vissuto. Non sapendo cosa farne, ho pensato di condividere le mie esperienze sul blog, e in un secondo momento avrei potuto valutare di farne un libro.
Mi sono però accorto che un resoconto geografico rischia di diventare un esercizio di stile perché chiunque è in grado di raccontare qualcosa che è stato visto da tutti. Qualcuno lo avrà sicuramente già fatto e qualcuno lo farà dopo. Per cui diventa una gara a chi piscia più lontano. La forza del racconto diventa allora avere qualche bella storia da agganciarci, e se non la si ha non la si può inventare, perché la poesia deve sempre vincere sulla prosa, specie su quella forzata.
Tutto questo a meno che tu non si parli di “Vangelo Yankee”, e allora anche fare colazione con un cornetto e un cappuccino diventa un'anabasi di creatività, un’odissea fantastica. L'opera di Jean è una perfetta combinazione di elementi dove il resoconto geografico diviene la cornice che impreziosisce un quadro di storie già belle di per sé, storie che starebbero su da sole ma che vengono arricchite dal contesto che gira loro intorno.

Nicolò Gianelli è stato una persona poliedrica, con più facce di un cubo di Rubik, e lo dico in senso buono. Pochissime persone possono dire di averlo conosciuto completamente e anche su alcune di queste io non sciolgo le mie riserve. Tuttavia è leggendo i suoi libri che si può provare a indovinare tutti gli Jean possibili. Per cui, nel caso non abbiate avuto la fortuna di conoscerlo, nel caso vogliate approfondire la questione o anche solo perché semplicemente non sapete cosa vi siete persi, “Vangelo Yankee” è un bel modo per iniziare. 
Certe cose si aprono alla chiusura.
Un mio amico che lo conosceva, ma non benissimo, ha sintetizzato dicendo che comunque fosse, di dritto o di rovescio, ti lasciava sempre qualcosa. Verissimo.

Spazio Evasione - Pavullo n/F, 06/12/15

Lettura consigliata: Capitolo 2 - Non è Washington D.C.

Fin da quando ero un ragazzino ho sempre stampato le fotografie che per me avevano più significato, quelle che mi ritraevano in determinati contesti o situazioni, oppure quelle scattate insieme ai miei amici, quelli più cari o quelli di un’avventura, chi avrebbe percorso con me un breve e chi un lungo tratto di vita.
Una volta stampate le appendevo alla parete della mia camera. E ho continuato a farlo anche quando sono andato a convivere e anche quando mi sono sposato, sebbene la parete non fosse più quella della mia cameretta bensì quella dello “studiolo”.

Il problema è che, avendo iniziato a sedici anni, le foto sono via via aumentate mentre le pareti si sono ristrette. Per cui, ad ogni nuovo sviluppo fotografico, ho dovuto sostenere una dolorosissima ed insopportabile operazione di cernita, sostituendo alcune foto per far spazio ad altre.

Tuttavia ce n’è una del 2009 -e se ci si pensa bene, è un tempo senatoriale- che non sono mai riuscito a togliere. Non sono certo che l’abbia scattata Jean, ma sono certo che sia stato proprio lui a darmela. Se uno non conosce la storia che c’è dietro, non può che trovarla un’immagine surreale, talmente strana che è difficile anche sol da descrivere.

In secondo piano è ritratta una corsia di un grande supermercato su cui lunghi e immensi scaffali è adagiato un incalcolabile numero di lavatrici i cui oblò guardano il passaggio. Di schiena a queste, e con lo sguardo rivolto verso chi sta scattando la fotografia, ci sono io, con in mano la custodia della mia chitarra. Davanti a me e di spalle verso la macchina c’è Berta, uno dei più grandi amici di Jean, la cui amicizia risale ai banchi del Liceo e proprio in virtù di questo è qualcosa di robusto e indissolubile. La sua chitarra è appoggiata a terra ed impegnato a leggere qualcosa. A chiudere il triangolo una ragazza con in mano un quadro del Cov raffigurante una televisione. 

L'immagine incriminata

Era Dicembre proprio come adesso, anche se qualche settimana più avanti e, come disse Santu, il ragazzo con cui andai sul posto quella sera, c’era un freddo troppo grosso anche solo per il tempo di una sigaretta all’aria aperta. Dimenticavo: la foto è in bianco e nero, e i nostri vestiti abbastanza classici fanno sì che sia complicato anche solo collocare temporalmente l’immagine. Potrebbe essere il 2009 (come in effetti era) ma potrebbe essere ieri, o il 1988. Solo lo sguardo esperto di un attento conoscitore di elettrodomestici potrebbe essere più preciso, ma è giusto un dettaglio insignificante.

Eravamo lì perché Jean aveva organizzato un evento.
Ricordo bene che quando mi invitò non mi chiese cos’ero disposto a fare, ma se ci fossi stato: gli chiesi se potessi suonare con Berta e mi rispose che avremmo assolutamente dovuto farlo. Gli domandai se ci fosse l’impianto o qualche predisposizione adatta allo scopo: ovviamente se ne sbatté bellamente i coglioni e rimbalzò le mie domande a Paolo Olivieri. Gli chiesi infine se ci fossero orari da rispettare e mi diede poco più di un’indicazione di massima perché quello non era un problema: Jean avrebbe potuto scrivere trattati su come perder tempo senza sprecare nemmeno un minuto. Era come se nell’imprevedibilità fosse certo di poter prevedere che nulla sarebbe andato storto.

Ebbene, aveva trasformato un anfratto ricavato dalle corsie del supermercato nel suo territorio di caccia all’arte. Aveva letto poesie accompagnato da Paolo Olivieri, una ragazza veneta aveva letto le sue, Dave Ravera aveva strimpellato uno dei suoi pezzi, io e Berta avevamo suonato una o due canzoni, non ricordo, e poi c’era il Cov che aveva allestito una piccola mostra dei suoi quadri. La cosa divertente è che il supermercato di cui sopra era il Grande Emilia e l’evento si chiamava Grande Emilia Ruvida, la prosecuzione invernale di Emilia Ruvida, che s’era svolta l’estate precedente e che Jean aveva deciso di bissare in una location del tutto imprevista e imprevedibile.


Immagine di repertorio: Emilia Ruvida

In questo mio tentativo di inquadrare la cosa c’è Jean, e c’è tutto. Bisogna infatti realizzare che il Grande Emilia è uno dei più grandi trionfi del consumismo, del capitalismo, della globalizzazione; ma prima ancora è il non plus ultra della standardizzazione, delle cose tutte uguali per persone tutte uguali. Immaginatevi dunque uno scapestrato vestito da punk, e vestito male, completamente destrutturato rispetto al contesto intorno che, tra una bottiglia di lambrusco e una birra da 66 (e mischiare non fa mai bene ma andarglielo a dire, a Jean, che farlo non era cosa buona giusta doverosa e salutare… ciao, ma ciao proprio…), legge poesie e guarda i suoi amici sbandati esibirsi in qualsiasi cosa siano lì intenti a fare. 
Nel più grande supermercato d’Emilia, del Nord Italia e quindi d’Europa, un punkettone modenese senza parte ma con tutta l’arte che poteva incarnare, aveva fatto irruzione con i suoi uomini per un’ora e mezza di fantasia, anarchia e libertà. Una sorta di deliberata giustizia poetica, senza bisogno di chieder permesso prima ma scusa dopo, eventualmente.

In quella piccola stanza, un’enclave di libertà in un mondo precostruito, c’era una persona ribalda completamente fuori luogo, armata solamente della sua immaginazione selvaggia, che non aveva dato alcuna regola o alcun filtro ai suoi compagni. 
Cose tutte diverse per persone tutte diverse: era a campo vinto.

Jean in quella foto non c’era, esattamente come non c’è stasera. Ma fondamentalmente in quella foto non eravamo noi ad esserci ma lui, esattamente come adesso non siamo noi ad esserci ma lui. Mi piace pensare che quella foto, quello slice of life che ho provato a raccontare, sia omaggio alle sue idee, alla sua allegria, ai suoi spiragli di libertà e ai suoi esperimenti artistici al limite di ogni buon senso.

È una foto splendida dall’inestimabile valore affettivo, umanamente irripetibile, un ricordo che come ogni cosa preziosa si conserverà senza venir alterata da niente. Come l’oro, che nonostante tutti i nonostante, non prende macchia.


Il matrimonio di Checco a Modena più che una giornata, una e vera e propria maratona. 

"Mi ricordavo di te coi capelli e... diverso."
"Più magro o più grasso?"
"Più magro... cioè... è che sai, a me quelli pelati sembrano più grassi, cioè... no... non so se è un complimento..."
Grande LorenSo.

Una delle ultime cene MEF

Transeuropa Express - Day 4

Un'insolita Luna di Miele di venti giorni in giro per l'Europa con la Punto.
Per l'occasione due cari amici mi hanno regalato uno splendido diario di viaggio su cui vergare i miei appunti. Nell'attesa di capire cosa farne, ho cominciato a sbobinare tutto e ho deciso di pubblicare sul blog i resoconti giornalieri delle varie città, e di farlo con cadenza casuale e indefinibile. Insieme al diario c'era anche una bussola, al cui interno era riportata una frase:"Not all those who wander are lost". Se non altro come omaggio al presente della coppia di amici, ho valutato più volte di utilizzarla come titolo ai miei scritti, ma ha prevalso quello su cui m'ero intestardito fin da subito:"Transeuropa Express", a ricordo di un sacco di cose a me molto care e che con questo viaggio avrebbero finalmente trovato una loro profondità.
Dopo il resoconto su AostaParigi e Bruxelles è il turno di Bruges, dell'età di mezzo estesa al presente, di cieli in movimento, dei Fratelli Grimm, del perché Pavullo sia così ombelicamente legata al Belgio,di scultori rinascimentali e piacevoli sindromi di Stendhal, dei 2many DJ's e dei dEUS.

Martedì 04/08/15 – Bruges

Sostanziosa continental breakfast. Era da un anno che non mi ingozzavo di prima mattina con pancetta abbrustolita, salsiccia e wurstel, almeno da quando ero stato in Irlanda con Bomber e Max. E quanto mi mancava, ci voleva proprio! 
Bruxelles e Bruges sono entrambe in Belgio e non distano che qualche ora, ma di sicuro non ne sono alla stessa pagina dei libri di geografia e storia. Bruges/Brugge, capoluogo delle Fiandre Occidentali e cuore della comunità fiamminga, è un piccolo gioiello preservato nella sua bellezza medievale. 
Sebbene sia stata condizionata da secoli di storia, non sembra essere cambiata di una virgola: conserva un fascino autentico ed intatto, pare la proiezione reale e tangibile di una città di un’altra epoca.
Dopo aver preso piede nel nostro hotel di turno, chiamato “Academie”, usciamo per visitarla.

Tutto molto bello

Purtroppo Bruges è affollata come il Grandemilia alla vigilia di Natale ma nonostante questo riusciamo a farci largo tra gli sciami di turisti (che avremmo poi scoperto essere per lo più occasionali, gente che prende il treno dalle varie città del Belgio e che viene qui per la più classica delle gite fuori porta) ed ammirarne piazze, monumenti, chiese e, soprattutto canali. 
Passiamo di fronte alla Chiesa di Nostra Signora, il cui campanile svetta alto e magnificente sulle deliziose vie intorno, siano queste di ciottoli o di acqua. Le seguiamo fino a rimanere stregati di fronte al canale di Rozenhoed cui dà profondità d’immagine la straordinaria vista del Belfort, la torre civica che s’affaccia sul Markt, la piazza principale della cittadina che, complice la meravigliosa giornata, sembra ancor più bella di quanto già non sia.

Rare volte l'uomo si inserisce da Dio nel contesto naturale

Il cielo terso è frastagliato da nuvole bianche che si rincorrono, rendendo tutto più magico e straordinario. Quando si dice che gli effetti speciali ce li mette il Creatore e che, nonostante tutti i nonostante, Madre Natura continua a farsi bella per noi.

Mi concedo, as usal, un breve inciso che non c’entra un cazzo.
Qualche settimana prima del matrimonio avevo accompagnato il nostro fotografo, Francesco Boni, un brillante ragazzo di Formigine, a condurre un sopralluogo laddove si sarebbero svolti i main events della cerimonia: il Castello di Montecuccolo e il casale di Serra Parenti. Era una giornata come questa e Boni s’era, e m’aveva, augurato che per il sabato del matrimonio il tempo potesse essere uguale perché non ci sarebbe stato niente di meglio di potere scattare foto con un cielo così, “in movimento” come aveva detto lui, scosso da nubi miti ed immacolate che imbiancavano a chiazze il blu limpido del cielo.
Oggi è proprio così: Instagram non serve, tutte le foto sono strepitose, no filter e no matter what.

Il mio compagno di running nonché videomaker Dom. Boni e il mio più grande insegnante di chitarra (nonché bassista) Barra

Bruges è una delle principali patrie della birra, delle patatine e del cioccolato. A noi interessa solo la prima proposta e, scelta una delle tante brasserie/birrerie che si incontrano lungo le calli di questo esteso borgo medievale, ne approfittiamo per calarci nella parte dei bevitori seriali.

Peccato aver fatto una scelta così: il nome era promettente

A dire la verità le tanto decantate birre belghe a me hanno sempre detto poco o niente, le ho sempre trovate parimenti care e disgustose. Non mi è mai stato troppo chiaro se fosse un problema mio o se fosse piuttosto l’inflazionato atteggiamento a prescindere ad averle trasformate in una psicosi collettiva non meglio definita. 
A Pavullo c’è un pub, molto famoso, in cui servono prevalentemente birre provenienti dal Belgio, accuratamente scelte dal gestore. Costano una tombola e sanno di Cif: malgrado questo vanno per la maggiore. Tant’è, e credo che ci sia una forte correlazione tra le due cose, un sacco di ragazzi del paese compie spedizioni alla volta delle abbazie “trappiste” e delle città belghe, così da visitare quelli che sono diventati i loro privati luoghi del mito.
Nonostante i miei pregiudizi e l’avversione culturale che ho maturato in anni di frequentazione del suindicato pub, in cui non son mai riuscito a farmi piacere alcuna birra se non una di importazione ceca, pur sorvolando col sopracciglio il prezzo a listino e guardando di sottecchi il cameriere di turno, ordiniamo una Duvel ed una Tripel Karmeliet

Ascolto consigliato: We know we can't go back - Noel Gallagher's High Flying Birds

Ci son due cose che non posso fare senza mettere in mezzo Noel Gallagher: compilazioni musicali e articoli di blog

Esistono cose per cui basta un attimo. Per esempio accorgersi d’essere un coglione. Oppure rendersi conto d’essere di un’ignoranza sensazionale, che è poi la stessa cosa. E lo capisco nell’esatto momento in cui il camarro mi svuota la birra in un caratteristico bicchiere. È come se osservasse un preciso rituale e non potesse permettersi di sbagliare. Realizzo che per questa gente la birra è una faccenda dannatamente seria: in fondo siamo turisti, potrebbero anche darci da bere, prendere i soldi e arrivederci al cazzo. Invece, nonostante il locale sia gremito in ogni ordine e posto, è sacro il tempo perché la Duvel venga spillata correttamente dalla bottiglia e un ricco cappuccio di schiuma bianca riempia lo speciale boccale, appositamente realizzato dalla casa produttrice per metterne in risalto tutta la brillantezza. Anche per la Tripel Karmeliet di donna Ilenia viene rispettata una meticolosa procedura e anche in questo caso il risultato finale è un successo.
Brindiamo alla nostra salute e al viaggio di nozze, contenti che tutto stia procedendo per il meglio e che ormai si sia completamente in ballo e non ci rimanga che ballare.

Acsè!

Studio la piccola fiaschetta, la qualità, la quantità desiderata, la gradazione e il colore, processo i dati e confronto con il prezzo. In effetti se non costano poco un motivo c’è: per quanto possa starci simpatico, questo non è il Baffo Moretti, di queste birre si pagano il gusto e la lavorazione che c’è dietro. Con buona ragione, mi tocca dire! E tra parentesi: sta' a vedere che mi devo ricredere anche sul famoso pub!
Tuttavia, convinti che, al di là di tutta la poesia di fondo, si tratti pur sempre di birra, decidiamo di bissare il giro, confortati anche dal fatto che raddoppiare trentatré centilitri anche se graduati otto e otto e mezzo non possa certo ammazzarci. E poi -e nella fattispecie l’Ile- siamo vaccinati da anni ed anni di esperienza nel ramo.
Il nostro si rivela un errore capitale. Non so cos’abbia sottovalutato mia moglie ma io di certo non ho tenuto presente che la parola “Duvel” assomigli un po’ troppo a “Devil”, "Devil" al dialettale "Dievel" e "Dievel" a "Diavolo", e che forse ciò potrebbe costituire un avvertimento di cui prendere buona nota. Inoltre abbiamo fatto i conti senza l’oste che, al momento di segnare l’ordinazione, ci guarda come -spoiler alert- qualche giorno dopo ci avrebbe guardato un gestore di tutt’altro affare ad Amsterdam. Non capiamo che a coppe comanda lui e, ostinati a proseguire in quello che ci sembra un brillante piano, decidiamo di parare eventuali contraccolpi alcolici con un waffle, incuranti della giudiziosa teoria del mio best man Berta, il quale è uso ripetere che “fare fondo dopo non serve a un cazzo”: equazione sempre verificata.

La supplementare razione di gradi, apparentemente inoffensiva, si materializza nell’esatto momento in cui ci alziamo in piedi e, di comune accordo, stabiliamo che l’eventuale mezz’idea di una pennichella pomeridiana possa, anzi, debba diventare intera. Ci avviamo verso la branda, decisi a tornare all’attacco nottetempo, verso ora di cena.
Tuttavia la strategia si rivela sbagliata perché tra le otto e trenta e le nove troviamo chiuse quasi tutte le cucine. Fortunatamente però, dopo aver rischiato di rimanere con il cerino in mano, ci imbattiamo in un quartiere nascosto dietro il Rozenhoed, in cui i ristoranti, covi di volpi bellamente intenzionate a pelare gli improvvidi visitatori affamati, sono ancora aperti.

Non so se sia chiaro: le patatine sono home made

Infatti in giro c’è pochissima gente e la temperatura, complice l’umido che sale dai corsi d’acqua, s’è abbassata di netto e la notte è brumosa. La fiumana di turisti che aveva preso d’assalto la città si è volatilizzata.

I fratelli Grimm, ideali ed inseparabili compagni di viaggio

Viene quasi da pensare che tutta la gente di prima sia salita a bordo delle chiatte che solcano i canali e abbia fatto ritorno verso casa. Meglio così perché se Bruges è suggestiva di giorno, di notte diventa incantevole, quasi fosse un villaggio senza tempo uscito direttamente da una favola dei Fratelli Grimm, dove i cavalieri dei calessi sostano lungo le stradicciole per dare la biada ai propri cavalli alla fine della giornata.

Ascolto consigliato: Hoppipolla - Sigur Ros

Una canzone magica per una città fiabesca.
Un giorno mi stancherò di guardare questo video, ma non è questo il giorno

Ci sono fotografi amatoriali e professionisti che, armati di macchina e cavalletto, si sono posizionati lungo i ponti e le passerelle per scattare foto ai canali, che riflettono le luci delle case e degli scorci illuminati della città. Ne verranno certamente immagini fatate, perché io stesso, che non ho altro mezzo se non il mio smartphone, rimango basito nel constatare che non ho bisogno di alcun filtro o alcuna correzione per migliorare le mie fotografie. Sono scatti così belli che sembrano banali, delle vere e proprie cartoline.

Non è difficile pensare che sia Patrimonio dell'Unesco

Note a margine. 
Val la pena fermarsi in una qualche bottega folkloristica per fare scorta di birre belghe, magari alla sera quando stanno per chiudere e non c’è più la ressa di visitatori che durante il giorno comprano qualsiasi puttanata si pari loro davanti. Donna Ilenia fa incetta di luppolo da portare a parenti, amici e benefattori vari.

Immagine trovata su http://horecagids.be/specialiteiten-de-biertempel-in-brugge/

Pro: può anche darsi che per qualche scherzo del destino parte di quella birra diventi mia.
Contro: già la povera Punto era più stipata della stiva di una nave cargo, ora non c’è più lo spazio nemmeno per una penna stilografica. Senza contare poi che, tra armi e bagagli vari, non so quante botte potranno prendere queste nuove e gradite compagne di viaggio.

Tornando a noi. 
Dopo esserci riposati, alla mattina approfitto di un momento di licenza matrimoniale per entrare nella Chiesa di Nostra Signora per una preghiera di ringraziamento: tutto è andato e sta andando per il meglio. Mi sembra il minimo render grazie di tutta questa fortuna prima di proseguire il viaggio. 
La chiesa -e fa strano- è tanto maestosa fuori quanto povera di bellezza, quasi scarna, al suo interno. Non so, sarà l’architettura, la predominanza di bianco e la troppa luce ma certo non è nulla di eccezionale. Tuttavia la mia attenzione viene rapita da una statua di marmo raffigurante la Madonna col bambino. È di una bellezza disarmante, di un’eleganza scultorea al limite della perfezione stilistica. Mi si attiva qualche neurone in testa, come se sapessi di aver già visto questa statua da qualche parte, e cerco di riesumare qualche nozione di Storia dell’Arte che tuttavia temo di aver rimosso il giorno dopo l’esame orale di quinta Liceo. 


Eppur si muove, sento che qualcosa nei meandri della mia mente sta cercando di riaffiorare. 
Dov’è che ho già visto questa scultura di marmo? 
Perché mi sembra di conoscerla? 
E poi, se è realmente qualcosa di straordinario, come mai ci sono così poche persone ad ammirarla? 
Le risposte sono molto meno poetiche di quanto creda e sono molto più pratiche. Può anche darsi che l’abbia studiata a scuola ma il mio ricordo è di celluloide e va ricondotto al film Monuments Men (in vero una pellicola di merda con una storia straordinaria), e al suo momento più toccante, quando il protagonista Frank Stokes, interpretato da George Clooney, trent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si ritrova nella Chiesa di Nostra Signora insieme al nipotino, commosso nel rivedere La Madonna col Bambino di Michelangelo, quella stessa statua che, grazie all’aiuto del reparto speciale da lui comandato, era riuscito rocambolescamente a mettere in salvo dai Nazisti.


Immagine presa da http://blog.ilgiornale.it/giani/2014/02/12/monuments-men-tra-tesori-perduti-come-sbiaditi-indiana-jones-dellarte/

Al di là della storia di questa scultura, tremendamente legata alla Storia con la S maiuscola, penso a quanto sia sorprendente imbattersi, senza saperlo (Mea culpa! Mea culpa! Mea maxima culpa!), di fronte ad un’opera d’arte fiorentina lontana migliaia di chilometri dall’Italia e rimanerne inconsapevolmente attratto, come se fosse scattata una scintilla, o come se, in per qualche inspiegabile ragione, sapesse di casa, parlasse la mia stessa lingua: un comune idem-sentire umano ancor prima che artistico. Ma sopra ogni altra cosa l’effetto più grande è quello estetico, la potenza espressiva che può raggiungere un capolavoro, la bellezza prima di tutto, la bellezza che, come scriveva Dostoevskij, avrebbe sempre salvato il mondo. Non so se sia così ma di certo è qualcosa che permette di riconciliarcisi, di pacificare l’animo, di scoprire che ci si può ancora commuovere per qualcosa che in fondo è vivo, ma lo è solo nei nostri sensi. 
Riguardo il perché ci siano così pochi visitatori a contemplarla, non so rispondere: sarà l’orario o, forse, la gente, proprio come me, è profondamente incompetente e non sa nemmeno cosa guarda.
Soprattutto però non sa che storia pazzesca si perda e che val la pena leggere qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Madonna_di_Bruges

Stiamo per lasciare il Belgio alla volta dei Paesi Bassi: si va ad Amsterdam.
Il bilancio, sia quello turistico che quello finanziario, è buono. Bruges è molto più economica sia di Bruxelles che di Parigi, e i prezzi, sia quelli dell’albergo che dei parcheggi e del vitto in generale, sono molto più popolari rispetto a quelli delle due capitali.

Un bel pezzo di casa anche qui. Quale strumento di tortura fosse quello sotto, Dio v'al déga

Prima di venire in Belgio, sapevo davvero poco di questa Nazione. Anche a livello musicale che, al pari del calcio, è ciò che mi permette di conoscere sempre qualcosa di più degli Stati che non ho mai visitato, il mio immaginario personale era piuttosto misero: Vincenzino Scifo, i dEUS, i 2 Many DJs e il film Bruges, la cui visione ho inserito tra i to do’s una volta che saremo tornati a casa. Fine della fiera.

Ascolto consigliato: Kids (MGMT) - 2ManyDJ's

Cosa darei per poterla ballare almeno una volta nella vita ad un qualche festival estivo in Europa

Ora me ne vado, ce ne andiamo, con occhi e sentimenti profondamente mutati da quello che abbiamo visto e vissuto. Ripenso a quello che mi aveva detto Laura, l’autostoppista che avevo caricato molti anni addietro sulla Via Vandelli, tra Maranello e Pavullo. Non sono sicuramente arrivato ad intendere appieno le sue parole ma qualcosa, specie se raffrontato con una canzone dei dEUS, rimane.

Un apparente senso di quiete nelle persone, nel clima, nel cielo e nell’architettura. E poi, all’improvviso, qualcosa che stride con tutto questo: l’inaspettata ma controllata durezza nella severità di alcuni volti, il freddo avanti sera, le chiese spoglie e disadorne, la sfarzosa rigidità delle residenze signorili. Una percezione del benessere che tende a mutare come il tempo, quasi che, davvero, la pioggia intorpidisse la bellezza dei pensieri, dello star del credere e delle cose in generale.

Ascolto consigliato: For the roses - dEUS

Saremo per sempre grati a Checco per averci fatto conoscere i dEUS

Continua...

Transeuropa Express - Day 3

Un'insolita Luna di Miele di venti giorni in giro per l'Europa con la Punto.
Per l'occasione due cari amici mi hanno regalato uno splendido diario di viaggio su cui vergare i miei appunti. Nell'attesa di capire cosa farne, ho cominciato a sbobinare tutto e ho deciso di pubblicare sul blog i resoconti giornalieri delle varie città, e di farlo con cadenza casuale e indefinibile. Insieme al diario c'era anche una bussola, al cui interno era riportata una frase:"Not all those who wander are lost". Se non altro come omaggio al presente della coppia di amici, ho valutato più volte di utilizzarla come titolo ai miei scritti, ma ha prevalso quello su cui m'ero intestardito fin da subito:"Transeuropa Express", a ricordo di un sacco di cose a me molto care e che con questo viaggio avrebbero finalmente trovato una loro profondità.
Dopo il resoconto su Aosta e Parigi, momenti di citazionismo spinto che vedono avvicendarsi il Mago di Segrate, l'Inferno del Nord, "E lei venne" de Il Teatro degli Orrori, la giornalista scrittrice che ama la guerra, una raggiante autostoppista di San Dalmazio e "I did miss you" di Tyrion Lannister. In mezzo c'è Bruxelles.

Lunedì 03/08/15 – Da Parigi a Bruxelles

Nello studiare il percorso che collega le due capitali, quella francese e quella belga, mi si para davanti l’immagine del “Mago di Segrate”, ancora una volta un Diego Abatantuono d’annata, quando consiglia ad miscredente Ingegnere di diffidare del primo volo per Sidney, e di prendere quello successivo che fa la rotta Parigi-Bastogne-Liegi-Bastogne-Liegi.

Un mare tremendo, un mare forza... Forza Milan!

Scopro infatti che, più o meno lungo la strada che ci porta a Bruxelles, si trova Roubaix. Intuisco quindi che la Foresta di Arenberg non deve essere molto distante rispetto alla nostra direzione, e costringo donna Ilenia ad effettuare una deviazione ciclo-turistica. Questa selva è famosa per il tratto di selciato che l’attraversa, un tracciato in pavé di due chilometri e mezzo che rappresenta il momento più impegnativo della classica-monumento del ciclismo: la "Parigi-Roubaix", detta anche “L’inferno del Nord”.

Non sappiamo esattamente come raggiungere questa foresta. L’unica cosa che ci è nota è che si trova nei dintorni di un villaggio chiamato Wallers, nell’estremo Nord-Est della Francia, proprio al confine con il Belgio.
Giunti nel paesello, il tipico borgo francese in mezzo alla campagna, con casette ordinate dai tetti a punta, spingiamo la macchina verso quello che ci sembra essere il bosco più fitto che c’è, e sulla destra vediamo una rientranza in cui sono parcheggiate alcune automobili.

Ci son certi nomi la cui pronuncia, oltre che riempire la bocca, ha qualcosa di magico.

Ci fermiamo, scendiamo e, nonostante non sia affatto indicato o pubblicizzato in nessun modo se non con un piccolo cartello, mi si stringe un po’ il cuore: sono al cospetto di uno di quei luoghi che il ciclismo ha reso mitico, la classica invernale che più di una volta mi ha tenuto incollato alla televisione. È estate, fa un caldo infernale ma il pavè è in buona parte inscurito dell’umidità buttata su dalla macchia che ne avvolge il percorso. Con le mie scarpe di tela faccio quasi fatica a reggermi in piedi e a non blisgare. Mi è improvvisamente chiaro come è che qui i ciclisti ci lascino ginocchia, gomiti, caviglie e rotule, specie se ne misuro la larghezza, non più di tre metri.

Tanta della storia del ciclismo è stata scritta su queste pietre.
Immagine tratta dal sito http://www.velominati.com/technique/the-trench/

Sono abbastanza convinto che questa digressione del viaggio raffiguri per mia moglie qualcosa da derubricare tra le cose di cui non frega un cazzo a nessuno, ma a me è piaciuto da matti, è stato come portare un bambino alle giostre, una nullità di grande valore da raccontare a mio padre e al mio amico Busanich, il classico: ”Io l’ho visto” o anche: ”Io ci sono stato”, anche se non durante la corsa.

Ascolto consigliato: Bartali - Paolo Conte

Se vuoi andare, vai. Io aspetto Bartali.

Torniamo in macchina e puntiamo verso Bruxelles.

Il viaggio è più agevole, specie dopo essere entrati in Vallonia, dove l’assennata gente del Belgio ha reso gratuite le autostrade.
Nota di colore: ci fermiamo in un grill per mangiare qualcosa. Prendiamo qualche baguette ed un condimento che ci paia ottimo e abbondante. Ovviamente non lo troviamo ma ci facciamo andare bene l’affettato del banco frigo. L’Ilenia, mayonese-addicted, ne prende un intero tubetto, ben sapendo che non lo utilizzerà tutto. Ho come l’impressione che la compagnia dell’anello, oltre a me, mia moglie e Google Maps, abbia un nuovo membro, che ci seguirà e ci veglierà dalla tasca posteriore del seggiolino da qui alla Croazia. Ammesso e non concesso che non impazzisca prima, sia per metafora che nella realtà.

Ascolto consigliato: Tender - Blur

Una delle canzoni topiche del Matrimonio, ideale nella tracklist del viaggio

È nostro uso e costume che io percorra le tratte lunghe, quelle più estenuanti, e l’Ile entri nelle città, con consumata tranquillità, tenendo la bussola nei momenti di burrasca del traffico urbano. Come ci avrebbe detto qualcuno di molto paradigmatico, qualche migliaio di chilometri più a Sud: ”You complete each other”.

Individuato il nostro hotel, l’NH Stéphanie, nel quale, dopo averci chiesto se siamo italiani, si sforzano di parlare nella nostra lingua abbozzando uno spagnolo molto volenteroso quanto fuori luogo, usciamo alla volta del Centrum, per poterne ammirare la celebre Grand Place, chiamata anche, in flemish, Grote Markt.

Infatti, nonostante Bruxelles sia un’entità territoriale e amministrativa a sé stante, siamo nelle Fiandre ed è praticato il bilinguismo, si parla sia francese che fiammingo. Per essere una Capitale, sembra una città a misura d’uomo.

Avete presente l'Atomium? Bene, perché io non saprei cosa dirne, dato che noi non l'abbiamo visto nemmeno per sbaglio.

Nel raggiungere la stazione più vicina della metropolitana, molto più modesta e datata di quella di Parigi, mi guardo intorno e rimango stupito da un immenso graffito che campeggia sul dorso di un grande palazzo lungo Avenue Louise. Raffigura una donna nuda che si masturba ed è in bella vista, enorme ed inequivocabile.

Ascolto consigliato: E lei venne - Teatro degli Orrori

Siamo tutti tutti tutti completamente pazzi

Non sono solito formalizzarmi quasi per nulla, ma ciò che vien da chiedermi è come sia stato possibile realizzarlo senza che nessuno abbia messo al gabbio l’artista. Evidentemente una cosa così qui in Belgio non desta alcun scandalo ma solo stupore; magari è stata anche commissionata!

Da qui non si riesce ad evincere, ma trattasi di emblematico caso di "hairy pussy" tipica del german vintage 70's.
Immagine tratta da http://www.corriere.it/esteri/13_febbraio_03/graffito-bruxelles_2d3d6c44-6e15-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml 

Scesi dalla metro e salita la scala che ci conduce all’esterno, Bruxelles si mostra in tutto il suo sfarzo. La Grand Place è meravigliosa e maestosa, si percepisce chiaramente di trovarsi in una città regale.

All'improvviso una piazza incredibile

Anche qui, come a Parigi, noto la moltitudine di ragazze e ragazzi che fanno jogging nei parchi e lungo i vialoni che tagliano la Capitale. Ancora una volta mi domando quanto possa essere bello correre a fianco di una residenza reale o negli sconfinati parchi che, con il loro verde, danno respiro alla città e la impreziosiscono con colori vivi e naturali.

Poi giusto un parchetto di collegamento tra più cose

Mentre rimango stregato dalle case delle corporazioni, dall’Hôtel de Ville (il Municipio) e dalla Maison du Roi, faccio caso ai tanti turisti arabi e di colore, e mi dedico ad alcune riflessioni, probabilmente banali ma dinnanzi alle quali mi pare quasi di aprire un terzo occhio sul mondo.

L’Occidente continentale esercita una straordinaria forza attrattiva, e questa cosa la mettiamo da parte. Nell’immaginario collettivo di un cittadino europeo non sono più i giapponesi o gli asiatici in genere a rimanere impressi, è come se fosse cambiato l’orizzonte turistico-culturale. Il passo è stato ceduto a donne e uomini dai costumi arabi o nord-africani, finemente vestiti, che conoscono le nostre città (o ne sono comunque allo stesso modo incuriositi) molto più dei visitatori che vengono dall’Estremo Oriente, tutt’altra fatta rispetto al comune vedere o sentire inculcato dai media televisivi. I chador, con cui le donne s’avvolgono il viso, sono di seta o di raso, costano più di tutti i vestiti che ho in valigia, gli occhiali che tengono sulla fronte portano i nomi delle marche più prestigiose e, infine, l’inglese che parlano è molto migliore del mio, semplice ma senza alcuna sbavatura.

Rammento che quand'ero un bambino si diceva che i giapponesi e i cinesi venissero in Europa con le loro macchine fotografiche per immagazzinare idee e successivamente replicarle nella loro patria. La sensazione è che ora, a farlo, siano i mediorientali che, dopo aver mandato in avanscoperta le proprie figlie e i propri figli a studiare nelle scuole occidentali, vengono ad informarsi, a documentarsi, a "derubare" la nostra cultura, a fare scorta dei segreti del nostro sviluppo storico e sociale.

Traggo due conclusioni di cui non frega un cazzo a nessuno.

1) Una cosa non potrà mai essere copiata o importata: il fascino del passato così gelosamente conservato dalle vecchie e grandi città europee, il retaggio della storia, prodotto unico ed inimitabile maturato in secoli di alterna cadenza di guerre e benessere, declino e rinascita.

Me lo immagino, il padrone di casa:"Se volete guardiamo la partita da me"

2) Quando due culture diverse si incontrano non dovrebbero generare attrito ma evoluzione. E, forse non a caso e/o comunque per non so quale ragione, mentre scartabello la home di facebook mi imbatto in un post polemico di un signore di Maranello, un povero coglione represso che probabilmente non va con una donna dal 1968 e che si deve sfogare manifestando la propria frustrazione verso le cose del mondo che non capisce e non gli piacciono. L'articolo che linka è un estratto de "La rabbia e l'orgoglio" di Oriana Fallaci che leggo e rileggo, stupendomi di quanto -quando uscì- la scrittrice toscana fosse completamente fuori strada, come non avesse assolutamente profetizzato il futuro e come le sue teorie riguardo il mondo arabo e le rispettive influenze su quello occidentale fossero un'accozzaglia di puttanate senza né capo né coda. Al tempo della stampa avrò avuto vent'anni o poco più e, come canta Guccini, "a vent'anni s'è stupidi davvero", per cui leggendo quelle parole avevo avuto un sussulto d'orgoglio nazional-popolare. Rileggendole ora mi sento stupido per la mia errata visione adolescenziale e  mi rammarico per la Fallaci, convenendo quasi quindici anni più tardi che Jovanotti, per quanto la canzone "Salvami" facesse cagare e non si potesse proprio ascoltare, aveva fondamentalmente centrato il punto.

Ascolto consigliato: Salvami - Jovanotti

"La giornalista scrittrice che ama la guerra perché le ricorda quand'era giovane e bella"

Qui a Bruxelles l'idea che, alla fine del film, sia la cultura occidentale ad influenzare quella araba, e che per alcune cose -per inciso le migliori, al momento- valga anche il viceversa, trova ulteriori conferme. E poi, una cosa che nessuno considera mai quando prova a predire il futuro, è che la storia se ne frega di premonizioni varie, la storia secolarizza tutto: tra cinquant'anni parleranno tutti inglese, saranno mezzi musulmani e mezzi cristiani perchè la religione sarà una moda, a Milano avranno tutti cognomi meridionali e a Berlino saranno tutti turchi di terza generazione: e nessuno si farà meraviglia di tutto questo perché sarà la normalità e più di duemila anni di storia non si saranno dimostrati fallaci.

Però due cannellate se le meritava.
Foto presa da qui.

Ciò che di negativo di Bruxelles traspare è la povertà, che stona di fronte a tutta la ricchezza sfoggiata dai palazzi, dai locali e dai monumenti della Capitale: una sorta di peccato di hybris. Ad ogni angolo di strada e vicolo si affacciano barboni, clochard, anziani, uomini e donne con bambini piccoli cui i turisti offrono la cioccolata di qualche pregevole bottega, ragazzi che si fanno compagnia con cani magri stenchi, la cui pancia dà l’idea di quando abbiano entrambi mangiato l’ultima volta.
Per chi, come me, è in viaggio di nozze, e si sente quasi in dovere di godersi la vacanza e vivere ogni giorno da signore e al di sopra delle proprie possibilità, vedere così tanta miseria è un pugno sferrato dritto al fianco della propria coscienza, ma non saprei né dire se giusto o severo. Nulla vale farsene una ragione o provare a darsene una spiegazione. È uno spettacolo orribile: presi da scrupoli superficiali ci domandiamo quanta mancia lasciare ai camerieri dei pub ma ci voltiamo dall’altra parte quando incrociamo lo sguardo supplichevole di un mendicante.

Ascolto consigliato: Melancholy Hill

In buona sostanza Bruxelles è una collina un po' malinconica ma bella

Riguardo alla popolazione locale, per quanto non sia facile distinguerla da quella turistica, i belgi mi sembrano affabili, abbastanza cordiali e simpatici. Hanno carnagione e capelli molto chiari, non vestono molto bene e si dividono, democraticamente, tra chi parla in francese e chi in fiammingo.
Cosa c'entra San Dalmazio con tutto questo? Mo' ve lo spiego.

"Grottesco perché si trattava invece di una borgata dimenticata da strade e dèi dell'urbanizzazione, afflosciata da sfumature di colori che sì, forse proprio e solamente quelli potevano ricordare la palestra in cui la Titova si era allenata da bambina. Era qualcosa di paradossale. Era come se Natalia Titova fosse divenuta la paladina della bellezza dinnanzi a tutto quella grigia decadenza, sembrava quasi invogliare i presenti e imbracciare le armi e a puntarle verso i muri incrostati delle case, e sparare: sarebbe stata legittima difesa contro il brutto e la tristezza".
Tratto da un libro che non ho mai pubblicato.

Molti anni fa, mentre percorrevo la via Vandelli in direzione di San Dalmazio, strada molto poco trafficata, mi imbattei in un’autostoppista. Era una ragazza bionda, raggiante e bellissima, che s’era trasferita dal Belgio in Italia e, sempre perché la realtà supera di gran lungo l’immaginazione, aveva trovato lavoro in un agriturismo della zona. Quel pomeriggio s’era messa in cammino verso Serramazzoni e, di tanto in tanto, quando passava qualche automobile, ne cercava il passaggio. La caricai. 
Parlava in italiano meglio di Skin e facemmo due chiacchiere.
Discutemmo delle differenze tra il mio e il suo popolo, e lei evidenziò il fatto che in Italia le persone fossero molto solari, aperte ma, allo stesso tempo troppo impulsive. Non sapendo come replicare, le dissi che forse era dovuto al troppo sole che ci picchiava in testa. Lei, di contro, rispose di non sapere cosa fosse meglio, se l’eccessivo calore che accendeva gli animi italiani o la pioggia che spegneva quelli belgi, come se il cattivo tempo si trasformasse in una meteorologia della mente, annebbiandone e confondendone i pensieri, fino a renderli grigi ed indecifrabili. Non so, sarà che qui non ha ancora piovuto ma per ora non mi sembra essere così.
La ragazza mi chiese anche che canzone fosse quella che stava passando la radio. Non lo rammento con esattezza, ma sono certo che si trattasse dei Marlene Kuntz perché disse di non riuscire ad distinguere le parole. Provai a spiegarle che era del tutto normale, essendo i loro testi molto ricercati, ma lei non capì e intese che s’esprimessero in dialetto o in una lingua locale. Cercai di chiarire meglio ma senza alcun esito. Non si fece meraviglia della cosa e aggiunse che in Belgio la differenza linguistica era una cosa molto sentita ed era quindi usuale che anche persone dello stesso paese parlassero in modo diverso.

È passato tanto tempo da quel pomeriggio e non ricordo assolutamente che canzone stesse passando in quel frangente ma mi piace pensare che fosse una intitolata, “Laura”, proprio come avrebbe potuto chiamarsi lei, la protagonista di questa divagazione estemporanea.

Ascolto consigliato: Laura - Marlene Kuntz


Visitiamo la città senza una meta precisa, schivando bellamente importanti monumenti come il Mannaken Pis e l’Atomium, ma ce ne godiamo il passeggio. Spossati, entriamo in un locale tipico, chiamato “A la mort subit”, nome che non ha bisogno di ulteriori presentazioni, fortemente sponsorizzato dal Bret, un nostro amico di Modena, che qui ha alcuni amici che viene spesso a trovare. L’atmosfera del pub è più raccolta e più intima rispetto ai bistrot parigini e, anche se il nostro tavolo è disposto di fronte alla via, riusciamo a rinfrescarci con qualche birra -molto più buona e molto più a buon mercato rispetto a quella francese- senza essere eccessivamente disturbati.

Grazie al Bret, non solo per averci suggerito dove andare ma anche perchè so che mi legge sempre (anche se perdo sempre) e per i giri di tequila a I Pini.

Scendiamo nuovamente verso la Grand Place e ci imbuchiamo lungo i vicoli che tagliano il centro della città, finendo, senza saperlo assolutamente, nel quartiere italo-ellenico. Da una parte della strada fanno bella mostra di sé trattorie italiane e pizzerie, dall’altra ristoranti e tavole calde greci. Scegliamo uno di quest’ultimi e, con soli quindici euro cad, ceniamo con pita e feta cui accompagniamo una birra locale, la Hoegarden. L’atmosfera è rallegrata da musicisti di strada che, nonostante la chiara nazionalità spagnola, intonano canzoni di ogni lingua e per tutti i gusti. In questo momento stanno suonando “Volare”. 
Fa sorridere, e allo stesso tempo pensare, che italiani, greci e spagnoli, si ritrovino insieme nello stesso posto, quasi fosse una barzelletta, al centro dell’impero europeo. O, forse, non poteva che essere così: del resto gli ultimi della classe fanno sempre comunella insieme; tra bestie ci si capisce sempre, e mi fa molto più piacere ingrassare questi, con i miei euro, piuttosto che i francesi.


Ad ogni modo questa immagine rafforza la teoria che mi son fatto riguardo Bruxelles, ovvero che si tratti davvero della Capitale de facto dell'Unione Europea, in grado, proprio come la comunità internazionale di cui è a capo, di accostare sfarzi e povertà, bellezza e necessità.

Visione consigliata: Game of Thrones 5x10 - Tyrion and Varys "I did miss you".


Lord Varys: If only. A grand old city. Choking of violence, corruption and deceit... Who could possibly have any experience of managing such a massive ungainly beast? 
Tyrion Lannister: I did miss you. 
Lord Varys: Oh I know. 

Continua...

Transeuropa Express - Day 1/2

Un'insolita Luna di Miele di venti giorni in giro per l'Europa con la Punto.
Per l'occasione due cari amici mi hanno regalato uno splendido diario di viaggio su cui vergare i miei appunti. Nell'attesa di capire cosa farne, ho cominciato a sbobinare tutto e ho deciso di pubblicare sul blog i resoconti giornalieri delle varie città, e di farlo con cadenza casuale e indefinibile. Insieme al diario c'era anche una bussola, al cui interno era riportata una frase:"Not all those who wander are lost". Se non altro come omaggio al presente della coppia di amici, ho valutato più volte di utilizzarla come titolo ai miei scritti, ma ha prevalso quello su cui m'ero intestardito fin da subito:"Transeuropa Express", a ricordo di un sacco di cose a me molto care e che con questo viaggio avrebbero finalmente trovato una loro profondità.
Nell'articolo che segue parlo di Parigi a modo mio con connessioni neurali particolarmente discutibili. Aristogatti, Tirzan, Enrico VIII, Litfiba, barbieri e parrucche, Mara Maionchi, la Democracia Corinthiana Club de Futebòl e l'amico Bad. Quello che rimane, monumenti inclusi, è cultura generale.

Domenica 02/08/15 – Parigi

Crema di crema alla Edgar

Devo essere onesto, per me Parigi significa pochissime cose. Una di queste è Diego Abatantuono in versione Tirzan di Eccezziunale Veramente, quando, arrivato col camion nella Capitale francese, s’esprime così al riguardo: ”Bella città, Parigi. Certo, non è Andria, non è Ascoli, non è Foggia. Però bella. Nel suo piccolo devo dire bella” e l’altra è il cartone animato degli Aristogatti. Questi sono gli unici collegamenti neurali che me la mettono in una buona luce. Diciamo quindi che non ne ho mai subito il fascino e che, non fosse stato per mia moglie, non l’avrei mai messa sulla mappa. 
Il fatto è che io volevo a tutti i costi visitare Budapest e lei andare in Francia: un grande viaggio era il solo modo per coniugare le due cose. Comunque sia non è che ora abbia particolari motivi per ricredermi su Parigi. Tuttavia voglio approfondire l’indagine della città senza pregiudizi di sorta e darle una possibilità.

Film che hanno segnato più di un'esistenza

Facciamo colazione in un tipico bistrot di fianco all’hotel.
Il caffè ovviamente sa di fosso e costa una fucilata: due euro e ottanta; anche la specialità della casa, il croissant, è da zero a zero. A referto va segnalato che sembra davvero di essere in un film di Woody Allen, in cui i protagonisti mangiano o bevono in vetrina: in vero molto romantico, una roba che profuma di belle epoque.

Che esista Parigi e che qualcuno scelga di vivere in qualunque altra parte del mondo resterà sempre un mistero per me. Cit. Gil. 
Parliamone. Anzi, siamo qui per farlo.

Lasciato il bistrot ci imbattiamo nel mercato preparato durante la notte appena trascorsa. Sono solito dire che le foto migliori sono quelle che non scattiamo ed è proprio così perché la frutta, la verdura e la carne esposte sono uno arcobaleno di colori mai visto prima.
Raggiungiamo la Metro, che qui è segnalata da un’insegna caratteristica e cerchiamo di capire l’andazzo generale. Ogni cosa qui, compreso il daily ticket -indispensabile per non aver limite di tratte od orari- è un mutuo. Potremmo salire e scendere dagli Hop on -Hop off bus che percorrono la città ma io adoro viaggiare sottoterra. Devo essere fatto al contrario: odio volare ma mi trovo completamente a mio agio underground. Sarà anche perché in metropolitana la fauna umana è nettamente più interessante. Certo è più pericolosa, meno affidabile, ma rappresenta un campionario molto più fedele di chi, una città, la vive fin da dentro le sue viscere, sia fisicamente che metaforicamente.

Tanto per non farci sentire la lontananza da casa

Non appena a bordo sale un improvvisato cantante che si guadagna da vivere esibendosi sui vagoni della metropolitana. Con il supporto di una radio che passa basi midi, canta canzoni popolari francesi, italiane e spagnole: il pezzo in cui si cimenta meglio è “Marina” di Rocco Granata. Sono anni che non sento questo brano e di certo non mi è mai mancato. La curiosità -spoiler alert- è che non sarà l’ultima volta che la sentiremo in questo viaggio di nozze. 

Prima tappa: il Louvre.
Non disponiamo del tempo per entrarvi e ci limitiamo ad ammirarlo da fuori. Ciò che impressiona è l’immensità: non ho mai visto un edificio così grande. Mi chiedo quante ore, o forse quanti giorni, possano occorrere per visitarlo tutto internamente. 

Sentirsi Dan Brown

I tempi sono ristretti e non abbiamo la possibilità di soffermarci su ogni monumento che incontriamo sulla nostra strada, per cui ci dirigiamo verso il secondo obiettivo di giornata, la Cattedrale di Notre Dame. Passeggiamo lungo La Senna, ostaggio dei turisti che intralciano la corsa dei runners, che invidio con tutto me stesso. Se va bene, io posso correre al Campo di Aviazione di Pavullo o nei percorsi preposti a Maranello, mentre gli atleti amatoriali parigini possono dilettarsi qui: senza invidia!

Foto hommmemmade

Siamo fortunati perché arriviamo in orario per la celebrazione internazionale della Messa. Non è la prima volta che mi capita di seguire una Funzione in una lingua diversa dall’italiano ma questa si rivela un’esperienza completamente diversa. La cattedrale è tenebrosa, lunga, scavata, profonda e le finestre non incamerano luce, quasi volesse nascondersi e conservare quell'alone di oscurità che tanto mi ricorda le pievi o le cappelle delle montagne delle nostre parti. Nell'aria aleggia uno spirito medievale, come se fossimo tornati indietro secoli o come se il tempo si fosse fermato all'epoca di Enrico VIII. 
C’è un cantore di blu vestito il cui ruolo è parificato, per importanza, a quello del Prete e a di chi declama le sacre letture. Al di sopra, in fondo alla navata centrale, c’è l’organista che prima della funzione si è esercitato intonando qualcosa o, più verosimilmente, ha accordato lo strumento, riscuotendo comunque gli applausi dei visitatori. 

Immagine presa da Wikipedia

Una volta la mia Professoressa di Filosofia aveva spiegato che la Messa, qualche secolo fa, veniva celebrata in latino anche nel caso in cui la maggior parte dei credenti non fosse in grado di intenderlo: ciò che contava non era la comprensione, bensì la fede. Una sorta di indulgenza culturale riservata a chi non era in grado di capire. Potremmo quasi dire di trovarci in una situazione simile, non fosse che sono stati distribuiti dei fogli protocollo in cui sono state riportate le letture, i canti, le preghiere e il Vangelo in almeno quattro o cinque lingue diverse, quelle più note in Europa, cui si aggiunge il latino. L’unica cosa che si dimostra incomprensibile è l’omelia in francese, comunque molto breve, cui ne fa subito seguito una di uguale significato in inglese.
Fa specie il momento dell’offertorio. Mi cade l’occhio sulla questua raccolta e noto la predominante presenza di monete da uno o due euro, pochissime banconote da cinque e nemmeno una da dieci. Constato quindi che Notre Dame non va di certo avanti grazie alle offerte dei fedeli, ma per tutta la paccottiglia e i souvenir venduti in fondo alla Cattedrale. Pecunia non olet: è proprio vero.

In ogni caso è stata un’esperienza straordinaria. 
Viene da chiedersi come sia possibile rimanere incantati da Notre Dame senza seguirne una celebrazione. Che senso può avere scattare qualche foto, contemplare i dipinti, le sculture o ascoltare l’organo se non si è lì per prender parte a ciò che ne è la sua stessa funzione? È un po’ come andare in uno stadio senza che giochi nessuno.

Ascolto consigliato: Madre - CCCP

Ferretti cantava certe cose nel 1989. Meravigliarsi di quel che dice adesso significa non aver seguito i CCCP se non per sentito dire.

Il nostro itinerario prevede la visita alla collina di Montmartre ma sbagliamo fermata della metropolitana e scendiamo nei pressi di Chateau Rouge. Non siamo pratici né lo possiamo sapere, ma non ci vuol un luminare della scienza per capire che si tratta in un quartiere poco raccomandabile di Parigi. Le insegne delle attività rispondono a nomi internazionali come KFC (dove andiamo a mangiare) o Costa, oppure sono quelle di street food maghrebini, indiani, turchi o cinesi. Dappertutto c’è qualcuno che vende pannocchie, noccioline, e pop corn che viene cotto in bollitori adagiati su carrelli della spesa, così che possano muoversi senza difficoltà nel caso in cui la gendarmerie passi per mandarli via o ad assicurarli in una qualche cella. 


Rimango stupito dai tanti negozi di cosmetica africana disposti uno via l’altro lungo la strada e che vendono tutti la stessa identica cosa: parrucche da donna. Scopro poi, parlandone con l’Ile, che si tratta di una pratica molto comune, diffusa in particolare tra le donne di colore, quella di sostituire la propria acconciatura con parrucche di ogni tipo e forma. Le donne nere, infatti, tendono ad avere capelli molto difficili da gestire o che si rovinano altrettanto facilmente. L’ovvia conseguenza è che intorno ai trent’anni si ritrovano costrette a correre ai ripari, cercando di sistemare la propria capigliatura e barattando parrucchiere con parrucche.


Cerchiamo un pertugio che ci porti verso Montmartre ma la moglie ha smarrito la bussola (ammesso e non concesso che ne abbia mai avuta una) mentre io mi sono perso nel guardarmi attorno. Per quanto mantenga intatto un istintivo senso dello stare in guardia e controllare sempre di avere le tasche piene dei miei valori, non riesco a non rimanere sorpreso e stordito dalla vivacità di tinte forti che dipinge questo quartiere: ci sono tutti i colori del pantone, un variopinto diorama di vita. L’unico che manca è il nostro, il mio e quello di donna Ilenia: siamo gli unici due bianchi di tutta la zona. Non mi era mai capitata una cosa del genere né avrei mai pensato potesse accadermi a Parigi. Fossimo stati in Africa avrei potuto metterlo in preventivo, ma non me lo sarei mai aspettato in una città occidentale. 

Ascolto consigliato: Sure Thing - St. Germain

Direttamente dal 1997, uno degli anni di grazia della musica, la canzone perfetta per raccontare i lquartiere di Chateau ROuge

E dire che il mio barbiere (o sarebbe meglio parlarne come di quello che mi rasa a zero la cabeza e mi corregge la barba) me lo aveva accennato. Mentre Spotify passava una canzone tra il reggae e il dub, mi aveva raccontato che quello stile gli ricordava “alcune serate balorde” che, in gioventù, aveva passato a Parigi: ”Non me lo dimenticherò mai. Io, una mia amica e, stranamente, il DJ eravamo gli unici bianchi: tutti gli altri erano di colore”. 
Beh, nemmeno io lo scorderò tanto facilmente.

Per fortuna ho ancora la barba per avere a che fare con personaggi così.

Finalmente intravediamo una strada in salita che dovrebbe portarci sulla collina di Montmartre. La percorriamo fino a raggiungere la Basilica del Sacro Cuore che si staglia, bianca candida, contro il cielo terso di Parigi. Vorremmo entrarvi o, se non altro, take a ride sul trenino che gira per il quartiere ma non abbiamo né troppo tempo né troppa voglia, risorse preziose che dobbiamo sprecare il più saggiamente possibile; e poi ci son davvero troppo turisti che rendono tutto più difficile e apprezzabile. 

Bello eh, ma 'na puzza di piscio che lasciamo proprio stare.

Questo sobborgo è noto soprattutto per gli artisti che, in altri tempi, ci vissero e da cui trassero spunto; ora, però, di tutta quell’arte è stato fatto commercio e, ancora una volta, la sostanza si è vendicata sulla poesia. Entriamo in un barettino caratteristico per concederci una pausa e approfittare dei servizi. Chiediamo due caffè: cinque euro e novantotto, questa è cattiveria, che Dio li strafulmini!

Ballo al Moulin de la Galette a Montmartre - Pierre Auguste Renoir

Quando ero adolescente uno dei miei gruppi preferiti erano i Litfiba ed una delle mie canzoni predilette s’intitolava Paname. M’ero sempre chiesto come mai buona parte del testo fosse in francese nonostante il suo nome rievocasse le atmosfere sudamericane del Panama, lo Stato ma, ancor prima, il cappello. Lo indovino a distanza di tanti anni, guardandomi intorno e osservandone il nome sulle insegne di alcuni locali. Faccio alcune ricerche e scopro che Paname è il nome informale che viene dato alla città, per via della diffusione tra i parigini, all’inizio del XX secolo, del copricapo chiamato proprio in questo modo.

Ascolto consigliato: Paname - Litfiba

"A Paname, a Paname, grognards et grenadiers sont fou de moi", una roba che io e Paolo Montagnani avremo cantato mille mila volte.

Scendiamo in direzione de La Pigalle, non prima di esserci affacciati da una terrazza da cui si gode una vista splendida sulla città, quindi raggiungiamo il Moulin Rouge, il sancta sanctorum della licenziosità parigina, e, dopo qualche foto di rito alle caratteristiche affiches, ci rimettiamo in marcia. Riprendiamo la Metro e puntiamo diritti all’Arco di Trionfo, che mi sconcerta in negativo. S’erge nel bel mezzo di una gigante rotonda intorno cui sfrecciano continuamente automobili, vanificandone ogni forma di romanticismo. Lo si può osservare dalle panchine e dagli spazi verdi disposti a lato strada ma, a meno che non si voglia dire basta alla vita, non vale la pena spingersi oltre.

Un 6+, e un + perché un + non si nega a nessuno.

Contattiamo il nostro amico Bad, d’istanza a Parigi da alcuni anni: è un rituale consolidato per chiunque di noi dell'ex-MEF, quello di intercettarlo e passare qualche tempo assieme a lui nella sua città putativa. Ci diamo la punta all’entrata del Museo Cité de l’Architecture, nelle vicinanze del Trocadéro, la terrazza panoramica da cui si può ammirare la Tour Eiffel
Sono anni che non ci vediamo e, vinto l’imbarazzo del ritrovarsi, chiacchieriamo camminando al di sotto della Torre e lungo i Campi di Marte. 

 
Sarebbe bello che da quella punta sventolasse una bandiera italiana

Mi rendo conto di quanto sarebbe stato importante conoscere, documentarsi e fare qualche ricerca prima di partire per il viaggio di nozze, così da sapere come muoversi nella città, a cosa dare la priorità di visita, come organizzare i vari spostamenti in metropolitana o in bus. Me ne rammarico tantissimo ma, oltre alla preparazione del matrimonio, c’è stato il lavoro che ci ha letteralmente disintegrato. Realizzo dunque una semplice ma assoluta verità, ossia che ogni mestiere, per quanto ci possa piacere o prenderci bene, per quanto ci possa permettere di raggiungere i nostri sogni e finanziare i nostri desideri, ci saccheggia tempo prezioso che potremmo investire in modi meno costruttivi a livello di economia domestica, ma di maggiore valore per la nostra salute e la nostra felicità.
Il lavoro dà, il lavoro toglie, specie in questi tempi di crisi in cui c’è da mangiare tanta merda e, quel che è peggio, non ce n’è nemmeno per tutti.

Insieme a Bad ci infiliamo in un vicoletto lontano dai prezzi spropositati della Capitale e beviamo qualche birra insieme, raccontandoci le vite degli altri. Quindi facciamo rotta verso il quartiere da cui siamo partiti, Place d’Italie, non molto lontano da quello in cui lavora il nostro Cicero. Mentre la metropolitana sale in superficie per un breve tratto, ci racconta che a Parigi esiste una vecchia linea ferroviaria scoperta, chiamata Petit Ceinture, in italiano “La Piccola Cintura”, molto interessante perché da quando ne è stato abbandonato l’uso nel 1934, non se n’è più fatto nulla ed è stata lasciata andare a sé stessa. Alcune stazioni sono state riconvertite in bar o ristoranti, alcuni tratti sono diventati passeggio per i parigini, altri mura per i writers, ma, prevalentemente, la linea è stata invasa da svariate specie di piante e di animali, divenendo praticamente inaccessibile.

Bad ci accompagna in un ristorante a buon mercato che conosce molto bene e di cui garantisce l’abbondanza del servizio. In effetti per mangiare il panino ordinato dobbiamo riprendere in mano la grammatica delle posate e cercare di individuare un sistema per divorarlo nella maniera più cristiana possibile, il che, in realtà, non si dimostra fattibile.

Mia facil...

Indosso la simpatica maglia della campagna elettorale del mio amico Max su cui compare il suo logo stilizzato. Il gestore, a detta di Bad, un parigino stranamente loquace ed estroverso, ne rimane affascinato e ci chiede che cosa rappresenti e se io sia disposto a vendergliela o ad indicargli dove l’ho acquistata. Sarebbe bello scattarsi una foto insieme ma non sono Gianni Morandi, il locale è affollato e non voglio rubargli troppo tempo.

Democracia Corinthiana Club de Futebol
Da sx vs dx Samuele "Bertrand" Bertacchini, Paolo "El Capitan" Lorenzi, Fabio "Cato" Tugnoli, Simone "Zeman" Ferrari, Giorgio "Il Principe/Il Truce" Mulazzi. Supervisionati dal Sindaco Max Morini

Facciamo altre due chiacchiere, ci salutiamo e facciamo un ultimo giro del quartiere prima di rientrare il albergo. 
A caldo, le mie considerazioni della prima vera tappa -Aosta è stata solamente un piccolo antipasto, una sosta zero- non sono entusiastiche. 
Fortunatamente (o, forse, sfortunatamente) non sono il Goethe che ha scritto “Viaggio in Italia”, quindi non ho l’obbligo, nemmeno morale, di parlare bene di qualsiasi cosa io veda in Europa né di condirla con stucchevole dolce stil novo.
A Parigi tutto mi è sembrato immenso: le rotonde stradali, il Louvre, i prezzi delle birre medie, dei caffè, la puzza costante di piscio, i panozzi mangiati con l’amico Bad e, non ultimo, la sporcizia, tutta l’immondizia accatastata ai lati delle strade e nel bel mezzo delle piazze. Per amor proprio e spirito di grandeur, i francesi (bassamente fiancheggiati in questo da inglesi e americani) si crogiolano nello svilire Roma e nell’evidenziarne le mancanze e i lati negativi. Non hanno certo tutti i torti ma è altrettanto vero che non hanno naso e voltano lo sguardo dall’altra parte quando girano per la propria città, perché più che chiamare Parigi La Ville Lumiere, dovrebbero soprannominarla La Ville Merdere

Le note annonarie sono da derubricare ed è davvero difficile capire come sia possibile, quantomeno per gli abitanti, vivere qui e arrivare a fine mese: viene facile pensare che siano tutti occupati nei servizi o a spennare i turisti come noi. 
I monumenti e le attrazioni principali che abbiamo visitato poi, la Tour Eiffel, l’Arco di Trionfo o il Moulin Rouge suscitano emozioni forzate, come veder qualcosa che, fondamentalmente, è tanto bello dal vivo quanto vederlo in cartolina o in una fotografia. 
Ancora, la lingua, insopportabile per le mie orecchie e il mio modo di vedere le cose. Volendo scrivere senza filtri e con l’intenzione di riportare tutto parlando pane al pane e vino al vino, il francese s’addice splendidamente bene sulle labbra di una donna ma rende tremendamente effeminato e imbarazzante anche il più rude degli uomini.
Per dirla con Mara Maionchi:”Parigi non mi è arrivata o, forse, non ci sono arrivato io”. Oppure, come credo, se non altro in base all’idea che posso essermi fatto in questi due giorni, la Capitale francese è autoreferenziale come ogni capolavoro: o ti piace all’istante, te ne innamori e ne vieni rapito, oppure l’unico rapporto che si può innescare è quello di una reciproca e debita distanza, più o meno cordiale.

Tiè!

Parlandone con il mio amico Checco, recensore pre-parto di quasi tutti i miei scritti, s’è detto d’accordo con me, ma a metà. Ha evidenziato come il poco tempo a nostra disposizione ci abbia impedito di approfondire alcuni aspetti della città a detta sua meritevoli e che avrebbero potuto intrigarmi. Ha menzionato i quartieri Marais e Bastille, i vari jardins e il canale St. Martin
Mai dire mai nella vita, magari un giorno ci ricapiterò e verrò a Canossa: in fondo Parigi val bene una Messa, come ampiamente dimostrato.

Ascolto consigliato: Macy Gray - Try


Per la serie "Canzoni dimenticate" pescate dal cilindro dei ricordi

Infine ci sono quelle cose che, per la legge dei grandi numeri, si vedono solo in una grande città perché il campionario di esseri umani è più vasto e più variegato. Cose semplici e banali che però restano in mente, davanti alle quali, nonostante trentaquattro primavere, rimango stupito come un bambino di fronte a una cosa nuove, e mi ritrovo a commentare:”È la prima volta che vedo una cosa simile”. 
Uscito da Notre Dame m’era passata davanti una ragazza che aveva un occhio verde ed uno blu, roba che nemmeno un X-Man o una spia mandata dagli alieni e, proprio ora, mentre stiamo per riconciliarci con Morfeo ci è appena transitata dinnanzi una ragazza di colore su una bici da corsa. Fa sorridere.
Per darci un tono usiamo parole complicate imparate al Liceo e poi però ci stupiamo nell’incappare in cose che sono solamente un po’ meno usuali del comune.
Quanto siamo provinciali, alla fine…

Continua...

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