Transeuropa Express - Day 3

Un'insolita Luna di Miele di venti giorni in giro per l'Europa con la Punto.
Per l'occasione due cari amici mi hanno regalato uno splendido diario di viaggio su cui vergare i miei appunti. Nell'attesa di capire cosa farne, ho cominciato a sbobinare tutto e ho deciso di pubblicare sul blog i resoconti giornalieri delle varie città, e di farlo con cadenza casuale e indefinibile. Insieme al diario c'era anche una bussola, al cui interno era riportata una frase:"Not all those who wander are lost". Se non altro come omaggio al presente della coppia di amici, ho valutato più volte di utilizzarla come titolo ai miei scritti, ma ha prevalso quello su cui m'ero intestardito fin da subito:"Transeuropa Express", a ricordo di un sacco di cose a me molto care e che con questo viaggio avrebbero finalmente trovato una loro profondità.
Dopo il resoconto su Aosta e Parigi, momenti di citazionismo spinto che vedono avvicendarsi il Mago di Segrate, l'Inferno del Nord, "E lei venne" de Il Teatro degli Orrori, la giornalista scrittrice che ama la guerra, una raggiante autostoppista di San Dalmazio e "I did miss you" di Tyrion Lannister. In mezzo c'è Bruxelles.

Lunedì 03/08/15 – Da Parigi a Bruxelles

Nello studiare il percorso che collega le due capitali, quella francese e quella belga, mi si para davanti l’immagine del “Mago di Segrate”, ancora una volta un Diego Abatantuono d’annata, quando consiglia ad miscredente Ingegnere di diffidare del primo volo per Sidney, e di prendere quello successivo che fa la rotta Parigi-Bastogne-Liegi-Bastogne-Liegi.

Un mare tremendo, un mare forza... Forza Milan!

Scopro infatti che, più o meno lungo la strada che ci porta a Bruxelles, si trova Roubaix. Intuisco quindi che la Foresta di Arenberg non deve essere molto distante rispetto alla nostra direzione, e costringo donna Ilenia ad effettuare una deviazione ciclo-turistica. Questa selva è famosa per il tratto di selciato che l’attraversa, un tracciato in pavé di due chilometri e mezzo che rappresenta il momento più impegnativo della classica-monumento del ciclismo: la "Parigi-Roubaix", detta anche “L’inferno del Nord”.

Non sappiamo esattamente come raggiungere questa foresta. L’unica cosa che ci è nota è che si trova nei dintorni di un villaggio chiamato Wallers, nell’estremo Nord-Est della Francia, proprio al confine con il Belgio.
Giunti nel paesello, il tipico borgo francese in mezzo alla campagna, con casette ordinate dai tetti a punta, spingiamo la macchina verso quello che ci sembra essere il bosco più fitto che c’è, e sulla destra vediamo una rientranza in cui sono parcheggiate alcune automobili.

Ci son certi nomi la cui pronuncia, oltre che riempire la bocca, ha qualcosa di magico.

Ci fermiamo, scendiamo e, nonostante non sia affatto indicato o pubblicizzato in nessun modo se non con un piccolo cartello, mi si stringe un po’ il cuore: sono al cospetto di uno di quei luoghi che il ciclismo ha reso mitico, la classica invernale che più di una volta mi ha tenuto incollato alla televisione. È estate, fa un caldo infernale ma il pavè è in buona parte inscurito dell’umidità buttata su dalla macchia che ne avvolge il percorso. Con le mie scarpe di tela faccio quasi fatica a reggermi in piedi e a non blisgare. Mi è improvvisamente chiaro come è che qui i ciclisti ci lascino ginocchia, gomiti, caviglie e rotule, specie se ne misuro la larghezza, non più di tre metri.

Tanta della storia del ciclismo è stata scritta su queste pietre.
Immagine tratta dal sito http://www.velominati.com/technique/the-trench/

Sono abbastanza convinto che questa digressione del viaggio raffiguri per mia moglie qualcosa da derubricare tra le cose di cui non frega un cazzo a nessuno, ma a me è piaciuto da matti, è stato come portare un bambino alle giostre, una nullità di grande valore da raccontare a mio padre e al mio amico Busanich, il classico: ”Io l’ho visto” o anche: ”Io ci sono stato”, anche se non durante la corsa.

Ascolto consigliato: Bartali - Paolo Conte

Se vuoi andare, vai. Io aspetto Bartali.

Torniamo in macchina e puntiamo verso Bruxelles.

Il viaggio è più agevole, specie dopo essere entrati in Vallonia, dove l’assennata gente del Belgio ha reso gratuite le autostrade.
Nota di colore: ci fermiamo in un grill per mangiare qualcosa. Prendiamo qualche baguette ed un condimento che ci paia ottimo e abbondante. Ovviamente non lo troviamo ma ci facciamo andare bene l’affettato del banco frigo. L’Ilenia, mayonese-addicted, ne prende un intero tubetto, ben sapendo che non lo utilizzerà tutto. Ho come l’impressione che la compagnia dell’anello, oltre a me, mia moglie e Google Maps, abbia un nuovo membro, che ci seguirà e ci veglierà dalla tasca posteriore del seggiolino da qui alla Croazia. Ammesso e non concesso che non impazzisca prima, sia per metafora che nella realtà.

Ascolto consigliato: Tender - Blur

Una delle canzoni topiche del Matrimonio, ideale nella tracklist del viaggio

È nostro uso e costume che io percorra le tratte lunghe, quelle più estenuanti, e l’Ile entri nelle città, con consumata tranquillità, tenendo la bussola nei momenti di burrasca del traffico urbano. Come ci avrebbe detto qualcuno di molto paradigmatico, qualche migliaio di chilometri più a Sud: ”You complete each other”.

Individuato il nostro hotel, l’NH Stéphanie, nel quale, dopo averci chiesto se siamo italiani, si sforzano di parlare nella nostra lingua abbozzando uno spagnolo molto volenteroso quanto fuori luogo, usciamo alla volta del Centrum, per poterne ammirare la celebre Grand Place, chiamata anche, in flemish, Grote Markt.

Infatti, nonostante Bruxelles sia un’entità territoriale e amministrativa a sé stante, siamo nelle Fiandre ed è praticato il bilinguismo, si parla sia francese che fiammingo. Per essere una Capitale, sembra una città a misura d’uomo.

Avete presente l'Atomium? Bene, perché io non saprei cosa dirne, dato che noi non l'abbiamo visto nemmeno per sbaglio.

Nel raggiungere la stazione più vicina della metropolitana, molto più modesta e datata di quella di Parigi, mi guardo intorno e rimango stupito da un immenso graffito che campeggia sul dorso di un grande palazzo lungo Avenue Louise. Raffigura una donna nuda che si masturba ed è in bella vista, enorme ed inequivocabile.

Ascolto consigliato: E lei venne - Teatro degli Orrori

Siamo tutti tutti tutti completamente pazzi

Non sono solito formalizzarmi quasi per nulla, ma ciò che vien da chiedermi è come sia stato possibile realizzarlo senza che nessuno abbia messo al gabbio l’artista. Evidentemente una cosa così qui in Belgio non desta alcun scandalo ma solo stupore; magari è stata anche commissionata!

Da qui non si riesce ad evincere, ma trattasi di emblematico caso di "hairy pussy" tipica del german vintage 70's.
Immagine tratta da http://www.corriere.it/esteri/13_febbraio_03/graffito-bruxelles_2d3d6c44-6e15-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml 

Scesi dalla metro e salita la scala che ci conduce all’esterno, Bruxelles si mostra in tutto il suo sfarzo. La Grand Place è meravigliosa e maestosa, si percepisce chiaramente di trovarsi in una città regale.

All'improvviso una piazza incredibile

Anche qui, come a Parigi, noto la moltitudine di ragazze e ragazzi che fanno jogging nei parchi e lungo i vialoni che tagliano la Capitale. Ancora una volta mi domando quanto possa essere bello correre a fianco di una residenza reale o negli sconfinati parchi che, con il loro verde, danno respiro alla città e la impreziosiscono con colori vivi e naturali.

Poi giusto un parchetto di collegamento tra più cose

Mentre rimango stregato dalle case delle corporazioni, dall’Hôtel de Ville (il Municipio) e dalla Maison du Roi, faccio caso ai tanti turisti arabi e di colore, e mi dedico ad alcune riflessioni, probabilmente banali ma dinnanzi alle quali mi pare quasi di aprire un terzo occhio sul mondo.

L’Occidente continentale esercita una straordinaria forza attrattiva, e questa cosa la mettiamo da parte. Nell’immaginario collettivo di un cittadino europeo non sono più i giapponesi o gli asiatici in genere a rimanere impressi, è come se fosse cambiato l’orizzonte turistico-culturale. Il passo è stato ceduto a donne e uomini dai costumi arabi o nord-africani, finemente vestiti, che conoscono le nostre città (o ne sono comunque allo stesso modo incuriositi) molto più dei visitatori che vengono dall’Estremo Oriente, tutt’altra fatta rispetto al comune vedere o sentire inculcato dai media televisivi. I chador, con cui le donne s’avvolgono il viso, sono di seta o di raso, costano più di tutti i vestiti che ho in valigia, gli occhiali che tengono sulla fronte portano i nomi delle marche più prestigiose e, infine, l’inglese che parlano è molto migliore del mio, semplice ma senza alcuna sbavatura.

Rammento che quand'ero un bambino si diceva che i giapponesi e i cinesi venissero in Europa con le loro macchine fotografiche per immagazzinare idee e successivamente replicarle nella loro patria. La sensazione è che ora, a farlo, siano i mediorientali che, dopo aver mandato in avanscoperta le proprie figlie e i propri figli a studiare nelle scuole occidentali, vengono ad informarsi, a documentarsi, a "derubare" la nostra cultura, a fare scorta dei segreti del nostro sviluppo storico e sociale.

Traggo due conclusioni di cui non frega un cazzo a nessuno.

1) Una cosa non potrà mai essere copiata o importata: il fascino del passato così gelosamente conservato dalle vecchie e grandi città europee, il retaggio della storia, prodotto unico ed inimitabile maturato in secoli di alterna cadenza di guerre e benessere, declino e rinascita.

Me lo immagino, il padrone di casa:"Se volete guardiamo la partita da me"

2) Quando due culture diverse si incontrano non dovrebbero generare attrito ma evoluzione. E, forse non a caso e/o comunque per non so quale ragione, mentre scartabello la home di facebook mi imbatto in un post polemico di un signore di Maranello, un povero coglione represso che probabilmente non va con una donna dal 1968 e che si deve sfogare manifestando la propria frustrazione verso le cose del mondo che non capisce e non gli piacciono. L'articolo che linka è un estratto de "La rabbia e l'orgoglio" di Oriana Fallaci che leggo e rileggo, stupendomi di quanto -quando uscì- la scrittrice toscana fosse completamente fuori strada, come non avesse assolutamente profetizzato il futuro e come le sue teorie riguardo il mondo arabo e le rispettive influenze su quello occidentale fossero un'accozzaglia di puttanate senza né capo né coda. Al tempo della stampa avrò avuto vent'anni o poco più e, come canta Guccini, "a vent'anni s'è stupidi davvero", per cui leggendo quelle parole avevo avuto un sussulto d'orgoglio nazional-popolare. Rileggendole ora mi sento stupido per la mia errata visione adolescenziale e  mi rammarico per la Fallaci, convenendo quasi quindici anni più tardi che Jovanotti, per quanto la canzone "Salvami" facesse cagare e non si potesse proprio ascoltare, aveva fondamentalmente centrato il punto.

Ascolto consigliato: Salvami - Jovanotti

"La giornalista scrittrice che ama la guerra perché le ricorda quand'era giovane e bella"

Qui a Bruxelles l'idea che, alla fine del film, sia la cultura occidentale ad influenzare quella araba, e che per alcune cose -per inciso le migliori, al momento- valga anche il viceversa, trova ulteriori conferme. E poi, una cosa che nessuno considera mai quando prova a predire il futuro, è che la storia se ne frega di premonizioni varie, la storia secolarizza tutto: tra cinquant'anni parleranno tutti inglese, saranno mezzi musulmani e mezzi cristiani perchè la religione sarà una moda, a Milano avranno tutti cognomi meridionali e a Berlino saranno tutti turchi di terza generazione: e nessuno si farà meraviglia di tutto questo perché sarà la normalità e più di duemila anni di storia non si saranno dimostrati fallaci.

Però due cannellate se le meritava.
Foto presa da qui.

Ciò che di negativo di Bruxelles traspare è la povertà, che stona di fronte a tutta la ricchezza sfoggiata dai palazzi, dai locali e dai monumenti della Capitale: una sorta di peccato di hybris. Ad ogni angolo di strada e vicolo si affacciano barboni, clochard, anziani, uomini e donne con bambini piccoli cui i turisti offrono la cioccolata di qualche pregevole bottega, ragazzi che si fanno compagnia con cani magri stenchi, la cui pancia dà l’idea di quando abbiano entrambi mangiato l’ultima volta.
Per chi, come me, è in viaggio di nozze, e si sente quasi in dovere di godersi la vacanza e vivere ogni giorno da signore e al di sopra delle proprie possibilità, vedere così tanta miseria è un pugno sferrato dritto al fianco della propria coscienza, ma non saprei né dire se giusto o severo. Nulla vale farsene una ragione o provare a darsene una spiegazione. È uno spettacolo orribile: presi da scrupoli superficiali ci domandiamo quanta mancia lasciare ai camerieri dei pub ma ci voltiamo dall’altra parte quando incrociamo lo sguardo supplichevole di un mendicante.

Ascolto consigliato: Melancholy Hill

In buona sostanza Bruxelles è una collina un po' malinconica ma bella

Riguardo alla popolazione locale, per quanto non sia facile distinguerla da quella turistica, i belgi mi sembrano affabili, abbastanza cordiali e simpatici. Hanno carnagione e capelli molto chiari, non vestono molto bene e si dividono, democraticamente, tra chi parla in francese e chi in fiammingo.
Cosa c'entra San Dalmazio con tutto questo? Mo' ve lo spiego.

"Grottesco perché si trattava invece di una borgata dimenticata da strade e dèi dell'urbanizzazione, afflosciata da sfumature di colori che sì, forse proprio e solamente quelli potevano ricordare la palestra in cui la Titova si era allenata da bambina. Era qualcosa di paradossale. Era come se Natalia Titova fosse divenuta la paladina della bellezza dinnanzi a tutto quella grigia decadenza, sembrava quasi invogliare i presenti e imbracciare le armi e a puntarle verso i muri incrostati delle case, e sparare: sarebbe stata legittima difesa contro il brutto e la tristezza".
Tratto da un libro che non ho mai pubblicato.

Molti anni fa, mentre percorrevo la via Vandelli in direzione di San Dalmazio, strada molto poco trafficata, mi imbattei in un’autostoppista. Era una ragazza bionda, raggiante e bellissima, che s’era trasferita dal Belgio in Italia e, sempre perché la realtà supera di gran lungo l’immaginazione, aveva trovato lavoro in un agriturismo della zona. Quel pomeriggio s’era messa in cammino verso Serramazzoni e, di tanto in tanto, quando passava qualche automobile, ne cercava il passaggio. La caricai. 
Parlava in italiano meglio di Skin e facemmo due chiacchiere.
Discutemmo delle differenze tra il mio e il suo popolo, e lei evidenziò il fatto che in Italia le persone fossero molto solari, aperte ma, allo stesso tempo troppo impulsive. Non sapendo come replicare, le dissi che forse era dovuto al troppo sole che ci picchiava in testa. Lei, di contro, rispose di non sapere cosa fosse meglio, se l’eccessivo calore che accendeva gli animi italiani o la pioggia che spegneva quelli belgi, come se il cattivo tempo si trasformasse in una meteorologia della mente, annebbiandone e confondendone i pensieri, fino a renderli grigi ed indecifrabili. Non so, sarà che qui non ha ancora piovuto ma per ora non mi sembra essere così.
La ragazza mi chiese anche che canzone fosse quella che stava passando la radio. Non lo rammento con esattezza, ma sono certo che si trattasse dei Marlene Kuntz perché disse di non riuscire ad distinguere le parole. Provai a spiegarle che era del tutto normale, essendo i loro testi molto ricercati, ma lei non capì e intese che s’esprimessero in dialetto o in una lingua locale. Cercai di chiarire meglio ma senza alcun esito. Non si fece meraviglia della cosa e aggiunse che in Belgio la differenza linguistica era una cosa molto sentita ed era quindi usuale che anche persone dello stesso paese parlassero in modo diverso.

È passato tanto tempo da quel pomeriggio e non ricordo assolutamente che canzone stesse passando in quel frangente ma mi piace pensare che fosse una intitolata, “Laura”, proprio come avrebbe potuto chiamarsi lei, la protagonista di questa divagazione estemporanea.

Ascolto consigliato: Laura - Marlene Kuntz


Visitiamo la città senza una meta precisa, schivando bellamente importanti monumenti come il Mannaken Pis e l’Atomium, ma ce ne godiamo il passeggio. Spossati, entriamo in un locale tipico, chiamato “A la mort subit”, nome che non ha bisogno di ulteriori presentazioni, fortemente sponsorizzato dal Bret, un nostro amico di Modena, che qui ha alcuni amici che viene spesso a trovare. L’atmosfera del pub è più raccolta e più intima rispetto ai bistrot parigini e, anche se il nostro tavolo è disposto di fronte alla via, riusciamo a rinfrescarci con qualche birra -molto più buona e molto più a buon mercato rispetto a quella francese- senza essere eccessivamente disturbati.

Grazie al Bret, non solo per averci suggerito dove andare ma anche perchè so che mi legge sempre (anche se perdo sempre) e per i giri di tequila a I Pini.

Scendiamo nuovamente verso la Grand Place e ci imbuchiamo lungo i vicoli che tagliano il centro della città, finendo, senza saperlo assolutamente, nel quartiere italo-ellenico. Da una parte della strada fanno bella mostra di sé trattorie italiane e pizzerie, dall’altra ristoranti e tavole calde greci. Scegliamo uno di quest’ultimi e, con soli quindici euro cad, ceniamo con pita e feta cui accompagniamo una birra locale, la Hoegarden. L’atmosfera è rallegrata da musicisti di strada che, nonostante la chiara nazionalità spagnola, intonano canzoni di ogni lingua e per tutti i gusti. In questo momento stanno suonando “Volare”. 
Fa sorridere, e allo stesso tempo pensare, che italiani, greci e spagnoli, si ritrovino insieme nello stesso posto, quasi fosse una barzelletta, al centro dell’impero europeo. O, forse, non poteva che essere così: del resto gli ultimi della classe fanno sempre comunella insieme; tra bestie ci si capisce sempre, e mi fa molto più piacere ingrassare questi, con i miei euro, piuttosto che i francesi.


Ad ogni modo questa immagine rafforza la teoria che mi son fatto riguardo Bruxelles, ovvero che si tratti davvero della Capitale de facto dell'Unione Europea, in grado, proprio come la comunità internazionale di cui è a capo, di accostare sfarzi e povertà, bellezza e necessità.

Visione consigliata: Game of Thrones 5x10 - Tyrion and Varys "I did miss you".


Lord Varys: If only. A grand old city. Choking of violence, corruption and deceit... Who could possibly have any experience of managing such a massive ungainly beast? 
Tyrion Lannister: I did miss you. 
Lord Varys: Oh I know. 

Continua...

Transeuropa Express - Day 1/2

Un'insolita Luna di Miele di venti giorni in giro per l'Europa con la Punto.
Per l'occasione due cari amici mi hanno regalato uno splendido diario di viaggio su cui vergare i miei appunti. Nell'attesa di capire cosa farne, ho cominciato a sbobinare tutto e ho deciso di pubblicare sul blog i resoconti giornalieri delle varie città, e di farlo con cadenza casuale e indefinibile. Insieme al diario c'era anche una bussola, al cui interno era riportata una frase:"Not all those who wander are lost". Se non altro come omaggio al presente della coppia di amici, ho valutato più volte di utilizzarla come titolo ai miei scritti, ma ha prevalso quello su cui m'ero intestardito fin da subito:"Transeuropa Express", a ricordo di un sacco di cose a me molto care e che con questo viaggio avrebbero finalmente trovato una loro profondità.
Nell'articolo che segue parlo di Parigi a modo mio con connessioni neurali particolarmente discutibili. Aristogatti, Tirzan, Enrico VIII, Litfiba, barbieri e parrucche, Mara Maionchi, la Democracia Corinthiana Club de Futebòl e l'amico Bad. Quello che rimane, monumenti inclusi, è cultura generale.

Domenica 02/08/15 – Parigi

Crema di crema alla Edgar

Devo essere onesto, per me Parigi significa pochissime cose. Una di queste è Diego Abatantuono in versione Tirzan di Eccezziunale Veramente, quando, arrivato col camion nella Capitale francese, s’esprime così al riguardo: ”Bella città, Parigi. Certo, non è Andria, non è Ascoli, non è Foggia. Però bella. Nel suo piccolo devo dire bella” e l’altra è il cartone animato degli Aristogatti. Questi sono gli unici collegamenti neurali che me la mettono in una buona luce. Diciamo quindi che non ne ho mai subito il fascino e che, non fosse stato per mia moglie, non l’avrei mai messa sulla mappa. 
Il fatto è che io volevo a tutti i costi visitare Budapest e lei andare in Francia: un grande viaggio era il solo modo per coniugare le due cose. Comunque sia non è che ora abbia particolari motivi per ricredermi su Parigi. Tuttavia voglio approfondire l’indagine della città senza pregiudizi di sorta e darle una possibilità.

Film che hanno segnato più di un'esistenza

Facciamo colazione in un tipico bistrot di fianco all’hotel.
Il caffè ovviamente sa di fosso e costa una fucilata: due euro e ottanta; anche la specialità della casa, il croissant, è da zero a zero. A referto va segnalato che sembra davvero di essere in un film di Woody Allen, in cui i protagonisti mangiano o bevono in vetrina: in vero molto romantico, una roba che profuma di belle epoque.

Che esista Parigi e che qualcuno scelga di vivere in qualunque altra parte del mondo resterà sempre un mistero per me. Cit. Gil. 
Parliamone. Anzi, siamo qui per farlo.

Lasciato il bistrot ci imbattiamo nel mercato preparato durante la notte appena trascorsa. Sono solito dire che le foto migliori sono quelle che non scattiamo ed è proprio così perché la frutta, la verdura e la carne esposte sono uno arcobaleno di colori mai visto prima.
Raggiungiamo la Metro, che qui è segnalata da un’insegna caratteristica e cerchiamo di capire l’andazzo generale. Ogni cosa qui, compreso il daily ticket -indispensabile per non aver limite di tratte od orari- è un mutuo. Potremmo salire e scendere dagli Hop on -Hop off bus che percorrono la città ma io adoro viaggiare sottoterra. Devo essere fatto al contrario: odio volare ma mi trovo completamente a mio agio underground. Sarà anche perché in metropolitana la fauna umana è nettamente più interessante. Certo è più pericolosa, meno affidabile, ma rappresenta un campionario molto più fedele di chi, una città, la vive fin da dentro le sue viscere, sia fisicamente che metaforicamente.

Tanto per non farci sentire la lontananza da casa

Non appena a bordo sale un improvvisato cantante che si guadagna da vivere esibendosi sui vagoni della metropolitana. Con il supporto di una radio che passa basi midi, canta canzoni popolari francesi, italiane e spagnole: il pezzo in cui si cimenta meglio è “Marina” di Rocco Granata. Sono anni che non sento questo brano e di certo non mi è mai mancato. La curiosità -spoiler alert- è che non sarà l’ultima volta che la sentiremo in questo viaggio di nozze. 

Prima tappa: il Louvre.
Non disponiamo del tempo per entrarvi e ci limitiamo ad ammirarlo da fuori. Ciò che impressiona è l’immensità: non ho mai visto un edificio così grande. Mi chiedo quante ore, o forse quanti giorni, possano occorrere per visitarlo tutto internamente. 

Sentirsi Dan Brown

I tempi sono ristretti e non abbiamo la possibilità di soffermarci su ogni monumento che incontriamo sulla nostra strada, per cui ci dirigiamo verso il secondo obiettivo di giornata, la Cattedrale di Notre Dame. Passeggiamo lungo La Senna, ostaggio dei turisti che intralciano la corsa dei runners, che invidio con tutto me stesso. Se va bene, io posso correre al Campo di Aviazione di Pavullo o nei percorsi preposti a Maranello, mentre gli atleti amatoriali parigini possono dilettarsi qui: senza invidia!

Foto hommmemmade

Siamo fortunati perché arriviamo in orario per la celebrazione internazionale della Messa. Non è la prima volta che mi capita di seguire una Funzione in una lingua diversa dall’italiano ma questa si rivela un’esperienza completamente diversa. La cattedrale è tenebrosa, lunga, scavata, profonda e le finestre non incamerano luce, quasi volesse nascondersi e conservare quell'alone di oscurità che tanto mi ricorda le pievi o le cappelle delle montagne delle nostre parti. Nell'aria aleggia uno spirito medievale, come se fossimo tornati indietro secoli o come se il tempo si fosse fermato all'epoca di Enrico VIII. 
C’è un cantore di blu vestito il cui ruolo è parificato, per importanza, a quello del Prete e a di chi declama le sacre letture. Al di sopra, in fondo alla navata centrale, c’è l’organista che prima della funzione si è esercitato intonando qualcosa o, più verosimilmente, ha accordato lo strumento, riscuotendo comunque gli applausi dei visitatori. 

Immagine presa da Wikipedia

Una volta la mia Professoressa di Filosofia aveva spiegato che la Messa, qualche secolo fa, veniva celebrata in latino anche nel caso in cui la maggior parte dei credenti non fosse in grado di intenderlo: ciò che contava non era la comprensione, bensì la fede. Una sorta di indulgenza culturale riservata a chi non era in grado di capire. Potremmo quasi dire di trovarci in una situazione simile, non fosse che sono stati distribuiti dei fogli protocollo in cui sono state riportate le letture, i canti, le preghiere e il Vangelo in almeno quattro o cinque lingue diverse, quelle più note in Europa, cui si aggiunge il latino. L’unica cosa che si dimostra incomprensibile è l’omelia in francese, comunque molto breve, cui ne fa subito seguito una di uguale significato in inglese.
Fa specie il momento dell’offertorio. Mi cade l’occhio sulla questua raccolta e noto la predominante presenza di monete da uno o due euro, pochissime banconote da cinque e nemmeno una da dieci. Constato quindi che Notre Dame non va di certo avanti grazie alle offerte dei fedeli, ma per tutta la paccottiglia e i souvenir venduti in fondo alla Cattedrale. Pecunia non olet: è proprio vero.

In ogni caso è stata un’esperienza straordinaria. 
Viene da chiedersi come sia possibile rimanere incantati da Notre Dame senza seguirne una celebrazione. Che senso può avere scattare qualche foto, contemplare i dipinti, le sculture o ascoltare l’organo se non si è lì per prender parte a ciò che ne è la sua stessa funzione? È un po’ come andare in uno stadio senza che giochi nessuno.

Ascolto consigliato: Madre - CCCP

Ferretti cantava certe cose nel 1989. Meravigliarsi di quel che dice adesso significa non aver seguito i CCCP se non per sentito dire.

Il nostro itinerario prevede la visita alla collina di Montmartre ma sbagliamo fermata della metropolitana e scendiamo nei pressi di Chateau Rouge. Non siamo pratici né lo possiamo sapere, ma non ci vuol un luminare della scienza per capire che si tratta in un quartiere poco raccomandabile di Parigi. Le insegne delle attività rispondono a nomi internazionali come KFC (dove andiamo a mangiare) o Costa, oppure sono quelle di street food maghrebini, indiani, turchi o cinesi. Dappertutto c’è qualcuno che vende pannocchie, noccioline, e pop corn che viene cotto in bollitori adagiati su carrelli della spesa, così che possano muoversi senza difficoltà nel caso in cui la gendarmerie passi per mandarli via o ad assicurarli in una qualche cella. 


Rimango stupito dai tanti negozi di cosmetica africana disposti uno via l’altro lungo la strada e che vendono tutti la stessa identica cosa: parrucche da donna. Scopro poi, parlandone con l’Ile, che si tratta di una pratica molto comune, diffusa in particolare tra le donne di colore, quella di sostituire la propria acconciatura con parrucche di ogni tipo e forma. Le donne nere, infatti, tendono ad avere capelli molto difficili da gestire o che si rovinano altrettanto facilmente. L’ovvia conseguenza è che intorno ai trent’anni si ritrovano costrette a correre ai ripari, cercando di sistemare la propria capigliatura e barattando parrucchiere con parrucche.


Cerchiamo un pertugio che ci porti verso Montmartre ma la moglie ha smarrito la bussola (ammesso e non concesso che ne abbia mai avuta una) mentre io mi sono perso nel guardarmi attorno. Per quanto mantenga intatto un istintivo senso dello stare in guardia e controllare sempre di avere le tasche piene dei miei valori, non riesco a non rimanere sorpreso e stordito dalla vivacità di tinte forti che dipinge questo quartiere: ci sono tutti i colori del pantone, un variopinto diorama di vita. L’unico che manca è il nostro, il mio e quello di donna Ilenia: siamo gli unici due bianchi di tutta la zona. Non mi era mai capitata una cosa del genere né avrei mai pensato potesse accadermi a Parigi. Fossimo stati in Africa avrei potuto metterlo in preventivo, ma non me lo sarei mai aspettato in una città occidentale. 

Ascolto consigliato: Sure Thing - St. Germain

Direttamente dal 1997, uno degli anni di grazia della musica, la canzone perfetta per raccontare i lquartiere di Chateau ROuge

E dire che il mio barbiere (o sarebbe meglio parlarne come di quello che mi rasa a zero la cabeza e mi corregge la barba) me lo aveva accennato. Mentre Spotify passava una canzone tra il reggae e il dub, mi aveva raccontato che quello stile gli ricordava “alcune serate balorde” che, in gioventù, aveva passato a Parigi: ”Non me lo dimenticherò mai. Io, una mia amica e, stranamente, il DJ eravamo gli unici bianchi: tutti gli altri erano di colore”. 
Beh, nemmeno io lo scorderò tanto facilmente.

Per fortuna ho ancora la barba per avere a che fare con personaggi così.

Finalmente intravediamo una strada in salita che dovrebbe portarci sulla collina di Montmartre. La percorriamo fino a raggiungere la Basilica del Sacro Cuore che si staglia, bianca candida, contro il cielo terso di Parigi. Vorremmo entrarvi o, se non altro, take a ride sul trenino che gira per il quartiere ma non abbiamo né troppo tempo né troppa voglia, risorse preziose che dobbiamo sprecare il più saggiamente possibile; e poi ci son davvero troppo turisti che rendono tutto più difficile e apprezzabile. 

Bello eh, ma 'na puzza di piscio che lasciamo proprio stare.

Questo sobborgo è noto soprattutto per gli artisti che, in altri tempi, ci vissero e da cui trassero spunto; ora, però, di tutta quell’arte è stato fatto commercio e, ancora una volta, la sostanza si è vendicata sulla poesia. Entriamo in un barettino caratteristico per concederci una pausa e approfittare dei servizi. Chiediamo due caffè: cinque euro e novantotto, questa è cattiveria, che Dio li strafulmini!

Ballo al Moulin de la Galette a Montmartre - Pierre Auguste Renoir

Quando ero adolescente uno dei miei gruppi preferiti erano i Litfiba ed una delle mie canzoni predilette s’intitolava Paname. M’ero sempre chiesto come mai buona parte del testo fosse in francese nonostante il suo nome rievocasse le atmosfere sudamericane del Panama, lo Stato ma, ancor prima, il cappello. Lo indovino a distanza di tanti anni, guardandomi intorno e osservandone il nome sulle insegne di alcuni locali. Faccio alcune ricerche e scopro che Paname è il nome informale che viene dato alla città, per via della diffusione tra i parigini, all’inizio del XX secolo, del copricapo chiamato proprio in questo modo.

Ascolto consigliato: Paname - Litfiba

"A Paname, a Paname, grognards et grenadiers sont fou de moi", una roba che io e Paolo Montagnani avremo cantato mille mila volte.

Scendiamo in direzione de La Pigalle, non prima di esserci affacciati da una terrazza da cui si gode una vista splendida sulla città, quindi raggiungiamo il Moulin Rouge, il sancta sanctorum della licenziosità parigina, e, dopo qualche foto di rito alle caratteristiche affiches, ci rimettiamo in marcia. Riprendiamo la Metro e puntiamo diritti all’Arco di Trionfo, che mi sconcerta in negativo. S’erge nel bel mezzo di una gigante rotonda intorno cui sfrecciano continuamente automobili, vanificandone ogni forma di romanticismo. Lo si può osservare dalle panchine e dagli spazi verdi disposti a lato strada ma, a meno che non si voglia dire basta alla vita, non vale la pena spingersi oltre.

Un 6+, e un + perché un + non si nega a nessuno.

Contattiamo il nostro amico Bad, d’istanza a Parigi da alcuni anni: è un rituale consolidato per chiunque di noi dell'ex-MEF, quello di intercettarlo e passare qualche tempo assieme a lui nella sua città putativa. Ci diamo la punta all’entrata del Museo Cité de l’Architecture, nelle vicinanze del Trocadéro, la terrazza panoramica da cui si può ammirare la Tour Eiffel
Sono anni che non ci vediamo e, vinto l’imbarazzo del ritrovarsi, chiacchieriamo camminando al di sotto della Torre e lungo i Campi di Marte. 

 
Sarebbe bello che da quella punta sventolasse una bandiera italiana

Mi rendo conto di quanto sarebbe stato importante conoscere, documentarsi e fare qualche ricerca prima di partire per il viaggio di nozze, così da sapere come muoversi nella città, a cosa dare la priorità di visita, come organizzare i vari spostamenti in metropolitana o in bus. Me ne rammarico tantissimo ma, oltre alla preparazione del matrimonio, c’è stato il lavoro che ci ha letteralmente disintegrato. Realizzo dunque una semplice ma assoluta verità, ossia che ogni mestiere, per quanto ci possa piacere o prenderci bene, per quanto ci possa permettere di raggiungere i nostri sogni e finanziare i nostri desideri, ci saccheggia tempo prezioso che potremmo investire in modi meno costruttivi a livello di economia domestica, ma di maggiore valore per la nostra salute e la nostra felicità.
Il lavoro dà, il lavoro toglie, specie in questi tempi di crisi in cui c’è da mangiare tanta merda e, quel che è peggio, non ce n’è nemmeno per tutti.

Insieme a Bad ci infiliamo in un vicoletto lontano dai prezzi spropositati della Capitale e beviamo qualche birra insieme, raccontandoci le vite degli altri. Quindi facciamo rotta verso il quartiere da cui siamo partiti, Place d’Italie, non molto lontano da quello in cui lavora il nostro Cicero. Mentre la metropolitana sale in superficie per un breve tratto, ci racconta che a Parigi esiste una vecchia linea ferroviaria scoperta, chiamata Petit Ceinture, in italiano “La Piccola Cintura”, molto interessante perché da quando ne è stato abbandonato l’uso nel 1934, non se n’è più fatto nulla ed è stata lasciata andare a sé stessa. Alcune stazioni sono state riconvertite in bar o ristoranti, alcuni tratti sono diventati passeggio per i parigini, altri mura per i writers, ma, prevalentemente, la linea è stata invasa da svariate specie di piante e di animali, divenendo praticamente inaccessibile.

Bad ci accompagna in un ristorante a buon mercato che conosce molto bene e di cui garantisce l’abbondanza del servizio. In effetti per mangiare il panino ordinato dobbiamo riprendere in mano la grammatica delle posate e cercare di individuare un sistema per divorarlo nella maniera più cristiana possibile, il che, in realtà, non si dimostra fattibile.

Mia facil...

Indosso la simpatica maglia della campagna elettorale del mio amico Max su cui compare il suo logo stilizzato. Il gestore, a detta di Bad, un parigino stranamente loquace ed estroverso, ne rimane affascinato e ci chiede che cosa rappresenti e se io sia disposto a vendergliela o ad indicargli dove l’ho acquistata. Sarebbe bello scattarsi una foto insieme ma non sono Gianni Morandi, il locale è affollato e non voglio rubargli troppo tempo.

Democracia Corinthiana Club de Futebol
Da sx vs dx Samuele "Bertrand" Bertacchini, Paolo "El Capitan" Lorenzi, Fabio "Cato" Tugnoli, Simone "Zeman" Ferrari, Giorgio "Il Principe/Il Truce" Mulazzi. Supervisionati dal Sindaco Max Morini

Facciamo altre due chiacchiere, ci salutiamo e facciamo un ultimo giro del quartiere prima di rientrare il albergo. 
A caldo, le mie considerazioni della prima vera tappa -Aosta è stata solamente un piccolo antipasto, una sosta zero- non sono entusiastiche. 
Fortunatamente (o, forse, sfortunatamente) non sono il Goethe che ha scritto “Viaggio in Italia”, quindi non ho l’obbligo, nemmeno morale, di parlare bene di qualsiasi cosa io veda in Europa né di condirla con stucchevole dolce stil novo.
A Parigi tutto mi è sembrato immenso: le rotonde stradali, il Louvre, i prezzi delle birre medie, dei caffè, la puzza costante di piscio, i panozzi mangiati con l’amico Bad e, non ultimo, la sporcizia, tutta l’immondizia accatastata ai lati delle strade e nel bel mezzo delle piazze. Per amor proprio e spirito di grandeur, i francesi (bassamente fiancheggiati in questo da inglesi e americani) si crogiolano nello svilire Roma e nell’evidenziarne le mancanze e i lati negativi. Non hanno certo tutti i torti ma è altrettanto vero che non hanno naso e voltano lo sguardo dall’altra parte quando girano per la propria città, perché più che chiamare Parigi La Ville Lumiere, dovrebbero soprannominarla La Ville Merdere

Le note annonarie sono da derubricare ed è davvero difficile capire come sia possibile, quantomeno per gli abitanti, vivere qui e arrivare a fine mese: viene facile pensare che siano tutti occupati nei servizi o a spennare i turisti come noi. 
I monumenti e le attrazioni principali che abbiamo visitato poi, la Tour Eiffel, l’Arco di Trionfo o il Moulin Rouge suscitano emozioni forzate, come veder qualcosa che, fondamentalmente, è tanto bello dal vivo quanto vederlo in cartolina o in una fotografia. 
Ancora, la lingua, insopportabile per le mie orecchie e il mio modo di vedere le cose. Volendo scrivere senza filtri e con l’intenzione di riportare tutto parlando pane al pane e vino al vino, il francese s’addice splendidamente bene sulle labbra di una donna ma rende tremendamente effeminato e imbarazzante anche il più rude degli uomini.
Per dirla con Mara Maionchi:”Parigi non mi è arrivata o, forse, non ci sono arrivato io”. Oppure, come credo, se non altro in base all’idea che posso essermi fatto in questi due giorni, la Capitale francese è autoreferenziale come ogni capolavoro: o ti piace all’istante, te ne innamori e ne vieni rapito, oppure l’unico rapporto che si può innescare è quello di una reciproca e debita distanza, più o meno cordiale.

Tiè!

Parlandone con il mio amico Checco, recensore pre-parto di quasi tutti i miei scritti, s’è detto d’accordo con me, ma a metà. Ha evidenziato come il poco tempo a nostra disposizione ci abbia impedito di approfondire alcuni aspetti della città a detta sua meritevoli e che avrebbero potuto intrigarmi. Ha menzionato i quartieri Marais e Bastille, i vari jardins e il canale St. Martin
Mai dire mai nella vita, magari un giorno ci ricapiterò e verrò a Canossa: in fondo Parigi val bene una Messa, come ampiamente dimostrato.

Ascolto consigliato: Macy Gray - Try


Per la serie "Canzoni dimenticate" pescate dal cilindro dei ricordi

Infine ci sono quelle cose che, per la legge dei grandi numeri, si vedono solo in una grande città perché il campionario di esseri umani è più vasto e più variegato. Cose semplici e banali che però restano in mente, davanti alle quali, nonostante trentaquattro primavere, rimango stupito come un bambino di fronte a una cosa nuove, e mi ritrovo a commentare:”È la prima volta che vedo una cosa simile”. 
Uscito da Notre Dame m’era passata davanti una ragazza che aveva un occhio verde ed uno blu, roba che nemmeno un X-Man o una spia mandata dagli alieni e, proprio ora, mentre stiamo per riconciliarci con Morfeo ci è appena transitata dinnanzi una ragazza di colore su una bici da corsa. Fa sorridere.
Per darci un tono usiamo parole complicate imparate al Liceo e poi però ci stupiamo nell’incappare in cose che sono solamente un po’ meno usuali del comune.
Quanto siamo provinciali, alla fine…

Continua...

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