Vangelo Yankee – Le mie istruzioni per l’uso

Di seguito riporto quanto detto/letto alla serata del 06/12/15 allo Spazio Evasione di Pavullo.

Poco dopo che Jean tornò dall’America mi inviò una bozza di quello che sarebbe poi diventato “Vangelo Yankee” ma che al tempo si intitolava ancora “12 Stati di Allucinazione”, affinché gliene dessi un feedback. Tra la sua prima mail e la mia risposta definitiva, la conversazione fu intervallata da parecchie mail interlocutorie perché, fondamentalmente, non trovavo il coraggio per dirgli che non mi era piaciuto.
Capisco bene che dire così non è una buona promozione, ma anche la cattiva pubblicità è buona pubblicità, specie se soggetta ad un intervento di redenzione non dovuto a quello che è accaduto. Con questo voglio dire che se sono qui a smentire me stesso non è per le circostanze drammatiche che hanno accompagnato l’uscita del libro ma per altre ragioni.



Tuttavia, andiamo con ordine.
A me la prima stesura che mi aveva inviato Jean non aveva entusiasmato perché credevo fosse una “summa”, un compendio di tutte le sue precedenti esperienze artistiche, qualcosa, per dirla in dialetto, di “beli vèst”. Io non solo conoscevo lo stile di Jean per i libri che aveva già pubblicato ma anche e soprattutto perché entrambi, da anni, eravamo fruitori del Forum MEF, autentico laboratorio culturale, il social mio e di tanti cari amici prima che comparisse Facebook, in cui ci leggevamo quotidianamente. Post leggeri e trattati di filosofia, da quella più spiccia a quella più profonda.
Ebbene, avevo avuto l’impressione che non ci fosse nulla di nuovo in “12 Stati di Allucinazione”, anzi.
Poi quando mi è capitato di rileggerlo, il mio punto di vista si è fatto differente. 
Per due motivi. 
In primis perché nel mondo dell’arte c’è un’equazione sempre verificata, ossia che le cose belle hanno bisogno di un tempo di maturazione. Prendiamo una canzone: se al primo ascolto piace, al quarto o al quinto avrà bellamente disintegrato i coglioni al 99% della popolazione mondiale. Se invece richiede un tempo di maturazione, costringe a sospendere il giudizio, pone titubanza, ripensamenti, ecco che si insinua piano piano, fino a diventare prima interessante, quindi carina, poi bella e, infine, straordinaria. Non so, exempli gratia di tutt'altro genere: un buon vino rosso per diventare nobile ha bisogno di decantare.
In secondo luogo penso che poter giudicare qualcosa occorra avere una pietra di paragone con cui confrontarlo/a, ancora meglio se personale. Io quest’estate ho fatto un insolito viaggio di nozze in giro per l’Europa, toccando alcune capitali e altre città X dislocate a caso around the map. Esattamente come Jean, avevo un taccuino su cui vergare i miei appunti di viaggio, in modo tale, una volta a casa, da sbobinarli. Così, rileggendo e ricopiando, avrei potuto rivivere tutto ciò che avevo visto e vissuto. Non sapendo cosa farne, ho pensato di condividere le mie esperienze sul blog, e in un secondo momento avrei potuto valutare di farne un libro.
Mi sono però accorto che un resoconto geografico rischia di diventare un esercizio di stile perché chiunque è in grado di raccontare qualcosa che è stato visto da tutti. Qualcuno lo avrà sicuramente già fatto e qualcuno lo farà dopo. Per cui diventa una gara a chi piscia più lontano. La forza del racconto diventa allora avere qualche bella storia da agganciarci, e se non la si ha non la si può inventare, perché la poesia deve sempre vincere sulla prosa, specie su quella forzata.
Tutto questo a meno che tu non si parli di “Vangelo Yankee”, e allora anche fare colazione con un cornetto e un cappuccino diventa un'anabasi di creatività, un’odissea fantastica. L'opera di Jean è una perfetta combinazione di elementi dove il resoconto geografico diviene la cornice che impreziosisce un quadro di storie già belle di per sé, storie che starebbero su da sole ma che vengono arricchite dal contesto che gira loro intorno.

Nicolò Gianelli è stato una persona poliedrica, con più facce di un cubo di Rubik, e lo dico in senso buono. Pochissime persone possono dire di averlo conosciuto completamente e anche su alcune di queste io non sciolgo le mie riserve. Tuttavia è leggendo i suoi libri che si può provare a indovinare tutti gli Jean possibili. Per cui, nel caso non abbiate avuto la fortuna di conoscerlo, nel caso vogliate approfondire la questione o anche solo perché semplicemente non sapete cosa vi siete persi, “Vangelo Yankee” è un bel modo per iniziare. 
Certe cose si aprono alla chiusura.
Un mio amico che lo conosceva, ma non benissimo, ha sintetizzato dicendo che comunque fosse, di dritto o di rovescio, ti lasciava sempre qualcosa. Verissimo.

Spazio Evasione - Pavullo n/F, 06/12/15

Lettura consigliata: Capitolo 2 - Non è Washington D.C.

Fin da quando ero un ragazzino ho sempre stampato le fotografie che per me avevano più significato, quelle che mi ritraevano in determinati contesti o situazioni, oppure quelle scattate insieme ai miei amici, quelli più cari o quelli di un’avventura, chi avrebbe percorso con me un breve e chi un lungo tratto di vita.
Una volta stampate le appendevo alla parete della mia camera. E ho continuato a farlo anche quando sono andato a convivere e anche quando mi sono sposato, sebbene la parete non fosse più quella della mia cameretta bensì quella dello “studiolo”.

Il problema è che, avendo iniziato a sedici anni, le foto sono via via aumentate mentre le pareti si sono ristrette. Per cui, ad ogni nuovo sviluppo fotografico, ho dovuto sostenere una dolorosissima ed insopportabile operazione di cernita, sostituendo alcune foto per far spazio ad altre.

Tuttavia ce n’è una del 2009 -e se ci si pensa bene, è un tempo senatoriale- che non sono mai riuscito a togliere. Non sono certo che l’abbia scattata Jean, ma sono certo che sia stato proprio lui a darmela. Se uno non conosce la storia che c’è dietro, non può che trovarla un’immagine surreale, talmente strana che è difficile anche sol da descrivere.

In secondo piano è ritratta una corsia di un grande supermercato su cui lunghi e immensi scaffali è adagiato un incalcolabile numero di lavatrici i cui oblò guardano il passaggio. Di schiena a queste, e con lo sguardo rivolto verso chi sta scattando la fotografia, ci sono io, con in mano la custodia della mia chitarra. Davanti a me e di spalle verso la macchina c’è Berta, uno dei più grandi amici di Jean, la cui amicizia risale ai banchi del Liceo e proprio in virtù di questo è qualcosa di robusto e indissolubile. La sua chitarra è appoggiata a terra ed impegnato a leggere qualcosa. A chiudere il triangolo una ragazza con in mano un quadro del Cov raffigurante una televisione. 

L'immagine incriminata

Era Dicembre proprio come adesso, anche se qualche settimana più avanti e, come disse Santu, il ragazzo con cui andai sul posto quella sera, c’era un freddo troppo grosso anche solo per il tempo di una sigaretta all’aria aperta. Dimenticavo: la foto è in bianco e nero, e i nostri vestiti abbastanza classici fanno sì che sia complicato anche solo collocare temporalmente l’immagine. Potrebbe essere il 2009 (come in effetti era) ma potrebbe essere ieri, o il 1988. Solo lo sguardo esperto di un attento conoscitore di elettrodomestici potrebbe essere più preciso, ma è giusto un dettaglio insignificante.

Eravamo lì perché Jean aveva organizzato un evento.
Ricordo bene che quando mi invitò non mi chiese cos’ero disposto a fare, ma se ci fossi stato: gli chiesi se potessi suonare con Berta e mi rispose che avremmo assolutamente dovuto farlo. Gli domandai se ci fosse l’impianto o qualche predisposizione adatta allo scopo: ovviamente se ne sbatté bellamente i coglioni e rimbalzò le mie domande a Paolo Olivieri. Gli chiesi infine se ci fossero orari da rispettare e mi diede poco più di un’indicazione di massima perché quello non era un problema: Jean avrebbe potuto scrivere trattati su come perder tempo senza sprecare nemmeno un minuto. Era come se nell’imprevedibilità fosse certo di poter prevedere che nulla sarebbe andato storto.

Ebbene, aveva trasformato un anfratto ricavato dalle corsie del supermercato nel suo territorio di caccia all’arte. Aveva letto poesie accompagnato da Paolo Olivieri, una ragazza veneta aveva letto le sue, Dave Ravera aveva strimpellato uno dei suoi pezzi, io e Berta avevamo suonato una o due canzoni, non ricordo, e poi c’era il Cov che aveva allestito una piccola mostra dei suoi quadri. La cosa divertente è che il supermercato di cui sopra era il Grande Emilia e l’evento si chiamava Grande Emilia Ruvida, la prosecuzione invernale di Emilia Ruvida, che s’era svolta l’estate precedente e che Jean aveva deciso di bissare in una location del tutto imprevista e imprevedibile.


Immagine di repertorio: Emilia Ruvida

In questo mio tentativo di inquadrare la cosa c’è Jean, e c’è tutto. Bisogna infatti realizzare che il Grande Emilia è uno dei più grandi trionfi del consumismo, del capitalismo, della globalizzazione; ma prima ancora è il non plus ultra della standardizzazione, delle cose tutte uguali per persone tutte uguali. Immaginatevi dunque uno scapestrato vestito da punk, e vestito male, completamente destrutturato rispetto al contesto intorno che, tra una bottiglia di lambrusco e una birra da 66 (e mischiare non fa mai bene ma andarglielo a dire, a Jean, che farlo non era cosa buona giusta doverosa e salutare… ciao, ma ciao proprio…), legge poesie e guarda i suoi amici sbandati esibirsi in qualsiasi cosa siano lì intenti a fare. 
Nel più grande supermercato d’Emilia, del Nord Italia e quindi d’Europa, un punkettone modenese senza parte ma con tutta l’arte che poteva incarnare, aveva fatto irruzione con i suoi uomini per un’ora e mezza di fantasia, anarchia e libertà. Una sorta di deliberata giustizia poetica, senza bisogno di chieder permesso prima ma scusa dopo, eventualmente.

In quella piccola stanza, un’enclave di libertà in un mondo precostruito, c’era una persona ribalda completamente fuori luogo, armata solamente della sua immaginazione selvaggia, che non aveva dato alcuna regola o alcun filtro ai suoi compagni. 
Cose tutte diverse per persone tutte diverse: era a campo vinto.

Jean in quella foto non c’era, esattamente come non c’è stasera. Ma fondamentalmente in quella foto non eravamo noi ad esserci ma lui, esattamente come adesso non siamo noi ad esserci ma lui. Mi piace pensare che quella foto, quello slice of life che ho provato a raccontare, sia omaggio alle sue idee, alla sua allegria, ai suoi spiragli di libertà e ai suoi esperimenti artistici al limite di ogni buon senso.

È una foto splendida dall’inestimabile valore affettivo, umanamente irripetibile, un ricordo che come ogni cosa preziosa si conserverà senza venir alterata da niente. Come l’oro, che nonostante tutti i nonostante, non prende macchia.


Il matrimonio di Checco a Modena più che una giornata, una e vera e propria maratona. 

"Mi ricordavo di te coi capelli e... diverso."
"Più magro o più grasso?"
"Più magro... cioè... è che sai, a me quelli pelati sembrano più grassi, cioè... no... non so se è un complimento..."
Grande LorenSo.

Una delle ultime cene MEF
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