Processi naturali

Nomen omen o, anche, nomina sunt consequentia rerum.


 


Subito due nota bene.
1) Avessi a disposizione una sola parola a didascalia della foto di cui sopra, userei questa: decompressione. Inoltre Blogger dà una sola slot di immagine da inserire nell'anteprima dell'articolo, e questa, nata quasi per caso, è forse la migliore tra quelle che avevo in mente.
Una tiepida sera primaverile nella piazza di uno dei miei domicili eletti, un dehor vivo e rumoroso che si svuota all'improvviso con il sopraggiungere della brezza che scende dalle colline e che soffia lungo i vicoli dell'antico borgo. L'immagine non è nitida, i contorni non sono definiti ed in fondo questo è il suo bello: i luoghi dell'esistenza hanno varie sfumature e pochi dettagli. Ciò che conta è fermare gli istanti, decomprimere i processi naturali che si celano dietro, cercare i vuoti tra i pieni, un senso tra i tanti colori che si confondono tra loro, recuperare le idee di felicità sparse cui non abbiamo prestato abbastanza attenzione.

2) Linkato all'incipit Crayon dei Manitoba, un pezzo rapido ed indolore così come rapidi ed indolori sono stati i tempi di questi appunti.



Riavvolgendo il nastro, dicevo che dietro ad ogni nome si nasconde il presagio di quel che sarà, in parole più povere, è sempre difficile e allo stesso tempo cruciale dare un titolo a un proprio scritto, di qualsiasi natura esso sia. Ed ogni volta che capita penso sempre a come il testo di Mi Ami dei CCCP non potesse realmente definirsi tale bensì l’ordinata raccolta di titoli un libercolo erotico letto da Ferretti. 
Intenzionale? 
Casuale? 
Davvero “spermi indifferenti per ingoi indigesti” poteva essere il titolo di un capitolo del saggio in mano a Giovanni Lindo?
Chi nisuno sa, direbbe Josè (di cui qualche menzione si ritroverà qualcosa scorrendo le sottostanti righe), eppure credo che il filo rosso che collega gli appunti sparsi catalogati nel mio secondo e ultimo taccuino giallo diarrea sia la naturalezza dei processi. 
In “Dentro Marylin”, Manuel Agnelli cantava de “il naturale processo di eliminazione” e mi ha sempre colpito l’abbinamento delle parole “naturale” e “processo”, più che altro perché formavano una specie di ossimoro, qualcosa di dissonante, una contraddizione in termini. O si tratta un processo, ossia qualcosa di logico, di pensato, che risponde a precisi parametri, oppure è qualcosa che segue una sua strada e che questa si possa svelare solamente alla fine, dipanandosi in ultimo come una matassa imbrogliata, rendendosi palese e chiara come mai prima di quell’istante.
Il fatto è che la vita, l’esistenza, è controversa per definizione: la meccanica che vogliamo sottintenda ogni foglia che si muove, in realtà è, paradossalmente, più naturale di quanto crediamo. 
Mastro Noel scriveva, nel lontano 1998, o giù di lì:”I don’t believe in magic, life is automatic”.



02/04/17 – Sant’Antonio Vs Carpi. Daje Francè.
Il Papa oggi è Carpi. Ho discusso (leggasi “questionato”) con diverse persone circa la bontà ideologica (ammesso che la parola "ideologia" abbia ancora una parvenza di significato) del Vicario di Cristo e dell’importanza della sua figura. Credo sia inutile prodigarsi in tale dialettiche, specie quando ci si imbatte in chi non fa differenza tra Chiesa e Fede. Si può essere vicini a Dio e non per forza ai preti. Postulato questo, possiamo parlare di religione; diversamente non solo non abbiamo niente da dirci, ma ho paura che gli interlocutori del caso non sappiano nemmeno cosa pensare al riguardo.


03/04/17 – Spezzangeles. Oltre le stelle.
È curioso perché per quante io volte possa avere ascoltato “Ok Computer”, ed in quante diverse fasi della mia vita io lo abbia fatto, ne ricolleghi l’idea solo all’ultimo viaggio a Merano a bordo della furga familiare.
Davanti eravamo io, Max e Berta e per alcuni tratti del viaggio ce lo siamo risentiti, pontificando sul quanto fosse bello e ancora attuale. 

21/11/2016, Riva del Garda rethink.
Io voglio e spero che questa diventi una tradizione annuale. Poi ognuno di noi prenderà la sua strada ma avere la possibilità di condividere anche solo una minivacanza insieme ai propri migliori amici e alle loro famiglie è una fortuna di cui esser grati.

Ad ogni modo pesco sulla pagina di Deer Waves la scaletta dell’ultimo concerto dei Radiohead, e dell’album totemico di cui in oggetto leggo l’esecuzione di solamente tre pezzi. Tolto “No Surprises”, scontato come un cane di nome Black, le altre due sono “Electioneering” e “Let Down” (non c'era "Paranoid Android", tanto per dire). Al tempo, vale a dire vent’anni fa, le canzoni summenzionate non mi piacevano, non erano tra le mie preferite, erano quelle che (avendo la musicassetta dell’album) lasciavo andare e nel mentre andavo a pisciare o a rispondere ai miei circa qualsiasi cosa m’avessero chiesto mezzora prima. 
Non so cosa sia, forse la stagionatura, che certi pezzi devono decantare per poi entrare in circolo, un reiterato ascolto distratto, tutto può essere. Il punto è che io, come scrivevo prima, ho sempre ascoltato questo disco, non è qualcosa che abbia archiviato e poi richiamato all’ascolto; voglio insomma dire che in qualsiasi momento della mia vita dal 1997 avrei potuto trovare belle “Electioneering” e “Let Down”. Invece no, è come se la piena comprensione delle canzoni si fosse snodata lungo un intervallo di vent’anni; eppure non ci sono stati ostacoli o prescrizioni: è stato un processo naturale.

Oggi una mia conoscente ha compiuto quarant’anni e, mentre lo raccontava, è entrata in scena una ragazza molto più giovane. Di rimando agli auguri, la più anziana le ha allora chiesto quanti anni avesse lei e alla risposta “venti” ho intravisto nei suoi occhi quel profondo senso femminile di invidia mista a scoramento, quand’io (in tutt’altra dimensione di deduzione) ho invece fatto un po’ di matematica contando all’indietro fino al 1997, l’anno dell’uscita di “Ok Computer”. 
La sintesi di questa sbabbelata è che per metabolizzare il disco mi è servita una generazione di passaggio, e forse non ho ancora finito. Ora, di certo io non sono il massimo conoscitore di musica mondiale, ma non mi sembra così peregrino pensare a quanto grande fosse un disco e a quali/quanti ragionamenti musicali vi fossero dietro, se ha resistito alla prova del tempo e se a distanza dello stesso è ancora in grado di sorprendere e generare emozioni.

I’m gonna grow wings, a chemical reaction
Si diceva, dei processi naturali?


04/04/17 – Spezzangeles. Non è tempo per me (semicit.)
Se per ogni “Va bene” e “Hai ragione” detti senza convinzione avessi un euro, a quest’ora sarei in dialisi perché avrei percentuali in diversi bar della zona.


06/04/17 – Spezzangeles. Non so cosa ma qualcosa vorrà pur dire.
Ogni tanto c’è qualcuno che scrive cose interessanti su FB. Non che questo avvenga sovente ma quando accade prendo nota. Un ragazzo brillante ha commentato un post con tre parole che ho appuntato:”Addomesticare la rabbia”. 
L’autore s’è anche chiesto se questa, ovvero la rabbia, spesso non covi da altre parti, quasi fosse l’Obscurus di “Animali fantastici e dove trovarli”.


08-09/04/17 – Fontanellato, Castell’Arquato, Salsomaggiore, Fidenza Village.

Colonna sonora della gita in quei di Parma e Piacenza è stata la selezione di pezzi compilatami da Alberto Lioy. Avrei voluto pubblicare "Cassetteboy's Theme" dei "Working for a nuclear free city" ma purtroppo non è disponibile in Italia. Ripiego, si fa per dire, su questo pezzone.

Credo che l’Emilia, propriamente detta, vada a Imola alle ultime propaggini della provincia di Parma e già questa sia non solo geograficamente ma anche culturalmente molto lontana da Bologna.
Il tratto distintivo della “R” moscia è qualcosa di tanto buffo quanto assurdo e, quando uno ci pensa bene e riconduce la cosa al dominio francese, s’arriva a considerarlo un retaggio incomprensibile. Comunque sia, venire da queste parti e ascoltare i locals che favellano tra loro mi ha ricordato i miei compagni universitari del corso di Laurea Specialistica. Parlarne è un tema ricorrente sulle colonne di queste blog ma aver sentito dal vero gente con stesso accento e cadenza è stato qualcosa di più forte rispetto all’aver rievocato immagini che me li ricordassero.

Fontanellato è qualcosa di nascosto in un’estremità sperduta della mia memoria.
Esistono tre categorie di luoghi figurati archiviati nel profondo delle nostre esistenze. Alcuni di questi sono emblematici (per me lo è, exempli gratia, il Carrefour di Massa), domicili eletti e riscoperte solo apparentemente casuali. 
Le ultime del lotto sono forse le più interessanti perché son sempre state dentro i nostri pensieri ma annidate in angoli remoti e poi sbucate fuori all’improvviso ma nemmeno troppo all’improvviso: come se il cervello avesse puntato una sveglia perché ad una certa riemergessero dall’abisso dei ricordi. Raramente però è un caso. 

L'Emilia sa essere bellissima anche e soprattutto quando non la descrive Vasco Brondi.

A Fontanellato sono già stato da bambino, ho una sorta di dèjà vu ma non riesco a ricostruire i particolari dell’eco visiva e mentale. Ci fermiamo a pranzare in un’osteria con vista rocca. Ci dice bene, anche quando eravamo stati a Gradara avevamo avuto la buona sorte di trovare un ristorante fuori dai coglioni ma ben posizionato tatticamente in cui mangiare bene e con calma.
Davanti a noi si è seduta una coppia con un bambino del tempo della Benedetta, sono accompagnati dalla madre di uno dei due, direi di lui. Io ho il grave difetto, in contesti come questo, di non farmi i cazzi miei, di origliare i fatti altrui e farmi viaggi che la metà basterebbe. L’uomo è di spalle mentre la ragazza è una tipa decisa, s’è visto fin dall’ordine del menù. Naso affilato, nemmeno troppo bella ma con un viso di quelli che colpiscono, pantaloni larghi e lenti, probabilmente un ex-sportiva, forse una nuotatrice o una pallavolista a giudicare dalle spalle, corporatura “aumentata” ma tipica di chi ha praticato uno sport faticoso o di grande disciplina fisica, interrotto di colpo per cause di forza maggiore (o peggiore). È perentoria, ha una forte indole di comando, non ha portato un gioco che sia uno per il bimbo, parla solo lei, non ne fa passare mezza né al compagno né alla suocera.
Chissà come dev’essere per lui, e chissà come dev’essere per l’altro, perché un altro questa ce lo ha di sicuro. E spero anche che non mi leggano mai, né lei né lui e né l'altro.

Castell’Arquato, “Giardino degli innamorati” (si chiama così, non è per fare lo stucchevole).
È strano ritrovarsi a pronunciare queste parole:”Che pace che c'è qui”.

È un peccato non raccontare niente di questa perla del primo Appennino Piacentino.
Ma va bene così, ho già detto tutto.

Salsomaggiore è liberty, così liberty da risultare kitsch. 
Dopo aver riscattato uno smart-box con scadenza bruciante, alloggiamo in un albergo che sarebbe parso demodé negli anni’80 e in cui il tempo, come nel resto del paese, sembra essersi fermato. Che ci si è talmente abituati a riferirsi a quell'epoca che non ci si rende più conto che l’intervallo temporale è quasi di due generazioni: si va indietro tre decadi di decadenza; pronto? Mi trovo a pensare a cosa volesse dire essere ricchi e benestanti in quell’epoca, se significasse passare una settimana in un hotel così trash, se la dolce vita salsese fosse andare alle terme (che ho paura mi venga il tetano solamente guardandole dall’esterno) se benessere equivalesse a “di notte chiudiamo alla mezza, l’una” (va bene non avere il night manager ma cos’è, una caserma?) e a “si cena alle sette e mezza” e “la colazione c’è fino alle nove e tre quarti, tranquillo”, che mancano solo i servizi di corvée come ai campeggi estivi parrocchiali e sam a post

Uno ci scherza ma Salsomaggiore è veramente così

La cameriera che ci serve è fuori luogo come Antonio Cassano al Salone del Libro: capelli magenta e piercing a naso e orecchie. È un po’ impacciata ma molto carina e simpatica, e, anche in questo caso, mi costruisco castelli sulla di lei vita. Ha citato il suo paese d’origine, un borgo isolato a qualche decina di chilometri da qui, sui colli piacentini: immagino che abbia pescato qualche carta di merda dal mazzo e che, per una qualche grazia ricevuta, ora stia parando i colpi andati a vuoto ma non abbia trovato nessun mestiere migliore di questo. Provo una forte empatia per lei, le ricambio ogni gentilezza: a ognuno il suo processo naturale.
Davanti a me c’è una coppia che, come credo il 90% delle persone sedute a tavola stasera, è qui perché ha usufruito del cofanetto-regalo. Gli habituè si notano, si muovono con disinvoltura nel loro accettare quel che viene senza aspettarsi troppo. Gli invitati, i convenuti e i partecipanti sembrano in prestito: rivolgono domande senza senso, pretendono cose assurde che non verrebbero loro concesse nemmeno con un sovrapprezzo, paiono paracadutati da un altro mondo. Vestiti a festa nemmeno fossero alla Francescana, fare elegante, gesticolare ridotto: per loro sento una sorta di pena mista a stupore.


Fotografie che potrebbero essere copertine di album del Faber e invece diventano cover dei miei articoli


10/04/17 – Sant’Antonio. Incubi reali. 
L’anno scorso sono cambiate due cose nella mia vita.
La prima, più importante nell’economia dell’esistenza e della felicità, è che sono diventato papà.
La seconda è quello che, in questo articolo, avevo definito “l’evento esterno”. Nonostante non abbia, in questo momento, di cui preoccuparmene né sappia se dovrò un giorno ancora farlo, ha lasciato un’impronta indelebile, quasi ora ci fosse un prima e un dopo, e non solo non si potesse più cancellare ma avesse profondamente alterato quello che al tempo era il mio futuro e quello che ora è il mio presente. È un incubo reale, una paura che si ripresenta ogni mattina prima di andare al lavoro e che non riesco a scacciare: qualcosa che ha scavato in profondità e che ora è difficile da mandare via.

Non so, è come quando mi son disintegrato la caviglia destra e, solamente dopo un lunghissimo e interminabile periodo di recupero e riabilitazione, sono tornato a giocare a pallone. Ricordo che usavo il piede buono esclusivamente per camminare, colpivo solo di sinistro e, essendo terzino destro con buona corsa, ogni volta che mi ritrovavo a crossare ero costretto a quindici manovre diversive per scartare il mio dirimpettaio, guadagnare spazio, vedere in mezzo e coordinarmi in maniera del tutto innaturale pur di calciare col piede debole.
Andò avanti così per un bel po’, fino a quando, dopo un’infinita sgroppata sulla fascia, un atavico istinto mi spinse a crossare di destro perché solo così avrei avuto il pieno controllo del giro del pallone, avrei saputo calibrare la forza, il gesto sarebbe stato rapido e non avrei avuto bisogno di troppo spazio per eseguire il lancio: insomma, il fondamentale tecnico sarebbe stato splendido, ineccepibile ma soprattutto performante. E così fu. La palla si staccò dal mio piede un nanosecondo prima che il difensore avversario mi travolgesse, centrandomi in pieno la caviglia, la sfera imbeccò la testa dell’attaccante che arrivava di gran carriera, e questi la impattò con una coordinazione perfetta. La forza e la velocità con cui questa era partita fecero sì che, una volta inzuccata con precisione, si trasformasse in una scheggia imprendibile diretta nel sette, quasi fosse stata schioccata da una fionda, e il portiere non potesse far altro che provare a immaginarsi la scena e ricostruirsela mentalmente una volta raccolta la palla dal fondo della rete. Vidi tutto questo da terra, dove il difensore avversario mi aveva ribaltato con il suo intervento killer, ma in quel momento il dolore alla caviglia era scomparso, lo avevo tirato in cielo insieme a quel pallone, con la paura che m’ero portato dietro fino a qualche istante prima. 

Raccontata così (e forse l’esperienza degli 11 Illustri Sconosciuti aiuta) pare sia un resoconto romanzato degno dell’Avvocato Buffa e un esercizio di stile fine a sé stesso. In realtà è un aneddoto che cerco spesso tra i miei ricordi per trovare coraggio, per ispirarmi e iniettare fiducia in me stesso: la consapevolezza che sia lecito calare corrente dopo aver preso la scossa, che affidarsi al “piede debole” non sia solo una necessità fisica ma anche psicologica; tutto verrà da sé e in maniera naturale, perché a volte nemmeno noi ci conosciamo fino in fondo né sappiamo individuare le linee di rottura con gli shock delle nostre vite, dobbiamo solo aspettare che il motore torni a pieni giri, che venga istintivo riprendere a calciare col piede dritto.

C'era una volta una canzone degli Slowdive, band shoegaze di Sua Maestà la Regina, che non riuscivo a smettere di ascoltare. Si intitolava "When the Sun Hits". A distanza di un botto di tempo, questo gruppo ha dato alla luce un nuovo album. 
Il bravo Lioy,, che già mi aveva anticipato di loro nei ns carteggi mail, ha provveduto a tenermi al corrente, Bertalife l'ha già inserito nel suo hashtag annuale delle canzoni da ricordare e Checco, ossia chi mi ha fatto scoprire gli Slowdive ormai dieci anni fa, viene messo in conoscenza ora. 
Pure questo, a suo modo, è un cerchio che si chiude. Non solo per le persone che racchiude ma anche perché non poteva esserci canzone più adatta a chiusura dello sproloquio di cui sopra: cupa ma energica allo stesso tempo.


12/04/17 – Spezzangeles. Dell’intelligenza.
Premessa. Qualche tempo si disquisiva e si scherzava con gli amici sui vari tipi di intelligenza: quella emotiva, quella discorsiva, quella narrativa. Per quante ne avessimo potute dire, non le avevamo ovviamente pensate tutte.
Salto in avanti di ragionamento. A 35 e rotti anni mi accorgo sempre più di essere un vecchio di merda: ho fatto pace con la crapa rasata e la barba sale & pepe, ho accettato di rimanere defilato ai concerti, porto pazienza quando qualcuno più giovane di me mi ripete una parola perché crede che io non la conosca o non ne abbia colto il senso perché lontana dalla mia cultura anagrafica. Soprattutto però ho pienamente realizzato che di intelligenza ne esiste un'altra, quella estetica, che per definizione è superficiale, infinitamente acerba e allo stesso tempo evanescente, ma più che sufficiente perché ragazze di poco più di vent'anni sappiano perfettamente d’essere belle e fascinose, di avere un culo che suona, canta e dice le poesie, di poter guardare chiunque dritto negli occhi senza abbassare lo sguardo quando dovrebbero essere loro a farlo, se non altro per una questione di anzianità di grado. Sono molto colpito da questa categoria, specie perché non mi sembra abbia né troppa parte né troppa arte, anzi. Credo che queste fanciulle debbano ancora vedere tantissimo di quello le aspetta e se da un lato invidio loro l’età, dall’altra le lascio tutte le agrodolci scoperte che questa si porta in dote. Capisco perché, quando lo buttava nella mischia a soli diciotto anni, Mourinho chiamava Santon “il bambino”.


Non avete mai visto una bella ragazza?

A questa tipologia di intelligenza, rispetto la quale io e i miei compari non avevamo indagato, ne segue e consegue un'altra, che definirei conservativa. Intendo riferirmi al buon senso di non concedere entrature a queste persone, né direttamente né indirettamente: tenere i piedi ben saldi nel dorato mondo dei casini schivati è sempre una buona idea.


13/04/17 – Puianello. Le vite degli altri.
Meglio essere stupidamente convinti di un’idea che convintamente stupidi in generale.


14/04/17, Modena. Compagni di Liceo o anche del perché dobbiamo fare i sostenuti parlando dell’ultimo disco di Bon Iver quando possiamo parlare di figa come abbiam sempre fatto.

"Una volta uscivamo per andare a ballare. Adesso facciamo foto alle piazze. Non dico che non mi piaccia, per lo meno finché tra di voi ci sarà un elettore del mio paese".

Modena s'è fatta bella stasera.

"Se non suono il campanello nessuno mi apre".
"Datemi un rasoio e sarò il vostro Varoufakis"
"Zeman, il 10 puoi dormire da me, sto a 60 mt dalla villa. Grazie Goppy, m'hai cambiato l'estate".
"Le donne, dopo i 40, sono come i giocatori a fine carriera. Ogni anno ce ne mettono 5".
"Siediti con noi e raccontaci la tua storia d'amore".
"Quello con cui sto cercando di farti accoppiare è quello pelato con gli occhiali".
"Il Tassoni era coibentato con uranio impoverito, il materiale restante era illegale".
Eravamo proletariato noioso ma interessante".
"In questo tavolo non c'è amore ma solo opportunità".
“Credevo fossimo fuori a cena e non in ‘Città sotterranee con Alberto Angela’"
"Porta altre Moretti. Una per tutti, anzi una ogni due, anzi portane una a testa".
"Le fontane! Perché non si vedono le fontane?"

Noi no, belli lo siamo sempre stati


#traparentesi: Giovedì e Venerdì Santi fatti con Max. Spero diventi una consuetudine annuale.


15/04/17, Riolunato (Ardondlà, in lingua), in viaggio. Pettegolezzi. 
Da queste parti si dice che per ogni cane che scondinzola c’è un coglione che apre bocca. Spettegolare può avere una triplice valenza: informarsi circa i fatti altrui per scovare un proprio interesse, scuriosare senza capire un cazzo e facendosi un’idea sbagliata, e sparlare degli altri con cattiveria. Per come la vedo io, è lecita la prima opzione: se lo spettegulezz possiede una sua, seppur bizzarra, curva d’apprendimento personale, allora ok e va bene anche quando il risultato finale è "cosa non si deve fare per evitare che".


15-16/04/17, San Pellegrino in Alpe, Castelnuovo in Garfagnana, Carrefour, Partaccia.
Se avesse un nome, questa mini vacanza andrebbe intitolata “To lose la Track”.
Quante volte ho fatto questo giro, traversando l’Appennino Tosco-Emiliano, svalicando sulle selvagge e austere Alpi Apuane, incrociando i bianchi e marmorei passi che, una volta superate le gallerie, buttano l’orizzonte sul Mar Tirreno che splende dabbasso al riflesso del sole alto in cielo, e quante volte ne sono rimasto ammirato e incantato, stupito di come la natura continuasse a farsi bella per me e per noi.

Uno scorcio dell'Isola Santa, un luogo spettrale.
Per inciso, io avevo già scritto qui della Garfagnana, articolo che, non-si.sa-perché, è il mio più letto ogni epoca e ogni blog.


Più che altro, in quante diverse vite ho percorso queste strade e visitato questi luoghi, quante volte ho soggiornato nella dimora marittima di Berta, alla Partaccia: da solo, in coppia, in fasi di grande sbandamento, da ragazzino, da accoppiato, gli ultimi dell’anno, insieme agli amici, da sposato, da padre. Prima parlavo di “Domicili eletti”: sicuramente Marina di Massa è uno di questi. A volte ne ho perso traccia ma le impronte son rimaste stampate sulla sabbia, per chi le sa e le vuole cercare, e non è mai un caso che ci si ritorni anche ad intervalli irregolari. Giusto il tempo di riambientarsi, e poi è come se ci si fosse lasciati la notte prima, quasi che ogni pezzo del giardino ed ogni spigolo della casa rievocasse momenti di età ed epoche passate, derubricate ma non cancellate.

Ogni volta che vado a Partaccia, vorrei fare una foto con cui testimoniare a qualcun altro quanto sia bella casa di Berta, con le Apuane dietro, la torre di Marina davanti, le margherite nel prato e gli ulivi in giardino. 
Ogni volta che ci provo ne viene fuori una foto di merda ma che per me ha un peso specifico incalcolabile.

Direi ormai sette anni fa, in compagnia di alcune amiche e alcuni amici (chi ritrovati, chi rimasti e chi perduti) andammo a trovare Berta la seconda settimana di Agosto (mettere foto). Giancarlo, suo padre, ci cucinò i testaroli ed io, con il carico di birre che avevo in pancia fin dalla night of (tradotto: un caldo disarmante ed un hangover stellare), necessitavo di spogliarmi e mangiare a torso nudo. Essendo l’unico animato da tali sentimenti, mi trattenni fino a quando non vidi lo chef (nonché padrone di casa) avere la mia stessa idea.
“Oh, fortuna che ti sei tolto la maglia anche tu, Gianchi. Sai, ero un po’ in imbarazzo a mangiare a torso nudo a casa tua.”
La risposta:”Oh, Zeman, devi essere parecchio sbronzo perché tu ti sei spogliato dieci minuti fa ed io, vedendo te, ho fatto uguale perché se io fossi stato l’unico mi sarei vergognato.”
Game, set & match.
Fa strano, oggi, ritrovarmi qui nel giardino con una bambina. Non è come avere portato qualcun altro, un nuovo amico: è qualcos'altro, una vita che si ripete. Come ha detto Berta dopo aver fatto una foto a lei e all'Annina che giocavano insieme:"Zerta 2.0".
Considerando che "Zerta" è nato a Partaccia allora siam sempre lì: processi naturali, nothing more and nothing less.


17/04/17, Sant’Antonio. Pensieri (troppo) periferici.
Bisogna sempre mettere la data davanti ai propri appunti. È sorprendente scoprire quanti anni possano trascorrere da quando si trascrive un pensiero che sembra catalogato il mese scorso.


18/04/17, Spezzangeles. Conoscere le persone.
Il miglior modo per capire come ragionano le persone sul lavoro è parlar con loro d’altro, di un argomento che si ha in comune. Se c’è una parvenza di idem-sentire, bene; altrimenti sarà dura allineare pianeti che orbitano in galassie diverse.


19/04/17, Ubersetto. Interior intimo meo.
Finalmente ho trovato, con una botta di culo enorme, una Parrocchia in cui vien detta Messa alle 18.30. E, si sa, anche la più grande organizzazione non potrà mai essere sostituita da una botta di culo enorme. A volte vado a Messa alla mattina, a Maranello, alle 7.30. Tuttavia, da un po’ di tempo a questa parte, non sono più nelle condizioni fisiche e mentali adeguate per affrontare di prima mattina il gran-varietà religioso. Ho addosso le tensioni del lavoro che mi aspetta, la pressione della strada da percorrere, il fatto che debba cagare (che va bene il motto latino “defecatio matutina bona tam quam medicina”, però a me lo stimolo vien sempre nel preciso momento in cui serro la porta con le chiavi): insomma, ero alla ricerca di un orario alternativo ma non troppo invasivo, tipo le 18.30.
Solo che in nessun luogo evangelizzato del Distretto Ceramico sembrava ci fosse una Parrocchia in cui venisse detta Messa a quell’ora. 
Cercando altro trovo la chiesa di Ubersetto, sponda fioranese dell’unica frazione italiana rispondente a tre comuni diversi. Che va bene tutto ma con un Santuario meraviglioso, una parrocchia in paese ed una nella vicina Spezzangeles, vengono dette sì due Messe serali ma alla stessa ora? 
Ad ogni modo, quando avrò bisogno di confrontarmi con me stesso, raccogliere i pensieri, quando crederò di dover aprire ticket all’Altissimo, andrò lì, a soli cinque minuti da dove lavoro.
Ne “Le Confessioni” Sant’Agostino ha scritto:”Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo." Arrivederci e grazie.




Parentesi musicale o anche "back to days".
Qualcuno, in tempi non sospetti, ci scrisse una canzone:"...and as he faced the sun, he cast no shadow". Meraviglioso articolo di Mucchio su Richard Ashcroft, i Verve e Urban Hymns.



Il ns caro compagno Chicco era solito invadere lo spazio vitale mio e di Checco ripetendo la lezione di storia prima delle interrogazioni. In corrispondenza dell'uscita di quest'album umanamente e musicalmente paradigmatico, noi studiavamo la Rivoluzione Industriale e il fenomeno di inurbanesimo.
Lui mi disse, lo ripeto sempre ma fa sempre ridere:"Contestualmente assistiamo all'In-urbanhymns, ossia la gente andava nelle città inglesi ad ascoltare i Verve". Genio.


20/04/17, Maranello. “Stiamo ancora passando?”
Finché suonavo con ragazzi di dieci anni più giovani di me e io ne avevo cinque in meno di adesso, mi sembrava di essere ancora attaccato al treno, magari all’ultimo vagone, però c’ero e stavo ancora passando. Ora ho come l’impressione di essermi fermato in stazione. Guardo i newcomers, li guardo passare, vedo i loro vestiti, sento le loro parole: siamo passati, per lo meno, io sono passato di sicuro.


21/04/17, Carpi. Concerto degli Spartiti.
Siamo al Kalinka, vecchia Casa del Popolo. Come dice Santu:”Guardando i subnormali che sono qui dentro, capisco anche io com’è che le Case del Popolo non abbiano vinto”. Highlights, One Direction, D’Aguanno. Buonasera compagni. Si può ancora dire "compagni"? Per richieste spirituali le consiglio di rivolgersi ad un esperto. E se poi è la ragazza di quello là?


22/04/17, Sant'Antonio. Nottetempo.
Mao cantava:"Prima di addormentarmi mi vengono in mente le cose migliori". A me succede nel cuore della notte e ogni volta penso che di sicuro non mi dimenticherò dell'intuizione che ho avuto, che non vale la pena svegliarsi e appuntarselo sul blocco note del cellulare. Poi ogni tanto ci ripenso e lo faccio. Stanotte ho sognato di coniare un neologismo:"Pease", una contrazione tra "Peace" e "Ease", che vorrebbe dire "Semplificare il processo di pace". In più somiglia a "Please", per cui ha anche un carattere di richiesta, di favore e di supplica. Il fatto è che le parole non hanno padroni per cui, ammesso e non concesso, che questo termine non esista già e abbia un altro significato, spero che qualcuno legga questo articolo e ci si imbatta, e lo usi.


23/04/17, Ogni bagno del mondo. Pensieri di merda.
Sono abbastanza convinto che, al contrario di un quotidiano, la consultazione di uno smarthphone non sia propedeutica all'espletamento dei propri bisogni. È un'estensione del pensiero gucciniano del "Nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento". Leggere un giornale è qualcosa di distaccato e passivo, non penalizza altri sforzi: scorrere gli ultimi aggiornamenti facebook, whatsapp e instacaz richiede troppa attività cerebrale, che, inevitabilmente viene sottratta a quella fisica, più importante e fisiologica.


24/04/17, Maranello. Forza Panino.
Finalmente aperitivo, dopo qualche tempo e qualche appuntamento mancato, con Tommy.
Due riflessioni maturate dal sempre interessante chatting con l'amico di vecchia data che, purtroppo, incrocio sempre meno. La prima è che più dai tempo a una persona per fare una cosa e più questa ce ne metterà per farlo. La seconda, solo all'apparenza slegata dalla prima, è che l'ultima battuta di Eyes Wide Shut è la più grande legacy umana lasciataci da Stanley Kubrick.

Se ciò di cui parla Nicole Kidman è, all'inizio di ogni rapporto (ma anche di ogni esistenza), quasi un'ossessione (o per lo meno un obiettivo), con l'incedere della giovinezza diviene un gioco, con un età più consapevole si trasforma in abitudine, rischiando a volte di declinare ad impegno, ma ad una certa, quando il tempo scarseggia, ecco che diventa raro e come tale si impreziosisce. E quando ci si trova davanti a qualcosa che vale, è come se fosse una sorta d'arte: se ne gode ogni momento e si fa di tutto perché duri il più possibile.
Scrivere, viaggiare, ascoltare canzoni, ritrovarsi, un hobby basta-sia di qualsiasi altra natura sono importanti, aiutano a decomprimere ma non sono affatto l'unica cosa che conta: resta in auge, in tutta la sua semplicità, il rituale più antico e segreto del mondo. Di tanti processi naturali, questo è sicuramente il più insondabile, il più curioso e quello che non smette mai di essere divertente. 

In verità avrei voluto terminare di prendere appunti sul taccuino e, di conseguenza, sbobinarli solo voltata l'ultima pagina, ma credo che l'argomento su cui si è andati a parare sia esausto. È strano perché se i primi mesi dell'anno mi son sembrati piantati come un chiodo su una bara e quindi più lunghi e lenti da descrivere, la Primavera è partita a razzo. Come ha detto Santu:"Era febbraio l'ultima volta che ho guardato l'orologio. Quando l'ho riguardato erano le 8 di sera e c'era ancora luce". 

E poi c'è da dire una coscia, ossia che a Maggio succederanno un sacco di cose per cui è forse meglio giocare una partita alla volta senza mettere troppa carne al fuoco.
Già sono logorroico di mio, non c'è bisogno di allungare il brodo se la misura è colma.

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