Cose brense

Chi mi segue sempre (anche se perdo sempre) sa che per me il titolo di un post è una questione di capitale importanza, quasi maggiore di quello che potrà essere l’articolo in sé o la qualità degli argomenti toccati.
Un po’ per non dimenticarli e un po’ per spiegare la scelta di questo, ossia il terzo titolo di tre, vale la pena soffermarsi su quelli scartati, cioè:”Una settimana brensa” e “Un tempo brenso”. Il primo dei due era stato preso in considerazione perché ciò di cui andrò a parlare si riferisce ai fatti riconducibili ad una sola settimana, mentre il secondo era stato valutato perché evitava di identificare un preciso arco temporale, lasciando al lettore un’idea più vaga, più dilatata ma comunque evocativa. Minimo comune denominatore tra tutti era ed è però l’aggettivo, cioè “brenso”, parola tutta emiliana, ahimè forse più bolognese che modenese, la cui etimologia credo derivi dall’azzeccata contrazione di "breve" ed "intenso", qualcosa che indica un vissuto ricco e pieno di significati raccolti in un fazzoletto di momenti.
Alla fine però ho preferito puntare su un titolo più semplice, senza articoli e senza specifiche, una roba che fa il verso a “Stranger Things”, lascia nell’indeterminatezza più assoluta e contiene l’unico termine imprescindibile di tutta la faccenda:”Brenso”,appunto.

Valigie intelligenti


Preludio - Celebrare l’Estate

Sono cresciuto nella tipica famiglia emiliana che, tra gli anni ’60 e i ’90, aspettava l’Estate per scappare due settimane in Romagna.
Sono andato coi miei in Riviera fin verso i quindici anni, non di più: dopo scelsi, e mai scelta fu più azzardata, il gentil sesso.
Quand’ero poco più di un lattante era d’obbligo Riccione, una volta ricordo di una fuga a Senigallia e, infine, ho memoria di almeno cinque anni passati a Rivazzura, una frazioncina di Rimini.  
Come da brava famiglia Brambilla in vacanza, rispettavano ogni parte del copione: gli orari della colazione, la scelta del menu giornaliero prima di andare in spiaggia, l’aperitivo nella sala grande dell’albergo, il pranzo delle 12.30, l’aperitivo nella terrazza illuminata a festa, la cena alle 19.00, la partita a carte nei tavoli in cortile, la passeggiata sul lungomare e/o tra i corsi del paese.
Era un ineccepibile rituale dal quale sembrava quasi proibito discostarsi.
Tiriamo fiato.

Intorno ai tredici/quattordici anni cominciai a sentirmi abbastanza chiuso da questo schema ripetitivo e capitava che finissi di mangiare velocissimamente per poi smarrirmi negli spazi incustoditi dell’albergo. Salivo e scendevo ogni piano, cercavo le differenze tra l’uno e l’altro, entravo nelle stanze lasciate aperte, dentro gli sgabuzzini, snasuplavo nelle lavanderie, mi spingevo nei seminterrati facendo finta di aver sbagliato a premere il pulsante dell’ascensore, passeggiavo sui balconi vuoti, e leggevo i depliant turistici affastellati nei raccoglitori della hall. 
Tiriamo fiato un'altra volta.

Una sera sono riuscito ad accedere in una piccola saletta che trovavo sempre serrata. Vedendo la porta socchiusa non avevo resistito e avevo scoperto trattarsi del camerino dei camerieri, che erano quasi tutti studenti mandati dalle rispettive scuole alberghiere a lavorare lì durante la stagione estiva. Appoggiate sulle sedie le borse delle ragazze, buttati per terra gli zaini e i caschi dei ragazzi; tutti, sia uomini che donne, poco più grandi di me quanto bastava perché tra la loro vita e la mia fossero già stati scavati vari abissi di esistenza.
C’era un gran confusione, quella creata da chi è arrivato in ritardo al lavoro e non ha avuto tempo di fare ordine tra le proprie cose, mollandole alla va là che va bene e gettando tutto alla rinfusa per terra. Da una delle borse sbucava una fotografia, una specie di selfie ante-litteram, in cui erano ritratti alcuni di quei camerieri: se l’erano auto-scattata (chissà come, poi?) sulla terrazza dell’albergo, ridevano e facevano facce buffe mentre fuori stava calando la sera. 

Le foto di una volta avevano un’insolita particolarità, ovvero su un piccolo triangolino nel vertice basso di destra era riportato l’anno di stampa. Direi fosse il 1995. Dietro, scritto a penna, “21 Giugno, Hotel Nelson, Rivazzurra”.
Non so perché ma questa scena di me e del mio incanto davanti a quella foto, mi è sempre rimasta in testa, è la prima cosa cui penso ogni volta che mi fermo in un hotel della Riviera. 
Era un’immagine bellissima, aveva veramente tutti i più nobili requisiti del selfie: la giovane e raggiante compagnia, i sorrisi e gli abbracci, lo sguardo d’intesa di una possibile coppia del gruppo, il momento rubato alla più bella delle ragazze che andava di fretta e doveva ancora prepararsi per l’appuntamento delle dieci. Soprattutto, però, la non trascurabile aggiunta di non risultare superficiale o artefatta come alcune fotografie pubblicate oggigiorno su facebook.
Quel momento riusciva a trasmettere un fortissimo senso di felicità, pieno di purezza, e, sebbene non riesca davvero a trovare un termine migliore per esprimermi, spero di aver reso l’idea perché è una vita e mezzo che voglio metterlo nero su bianco: comunicava qualcosa anche a me che di quelle ragazze e di quei ragazzi non sapevo niente, e di cui a malapena associavo il volto ad un nome. Oggi si direbbe:”Thank you for sharing” ma in quel tempo non solo non aveva senso un ringraziamento del genere ma chi aveva scattato la fotografia nemmeno pensava che un bamboz ci si imbattesse in un'occasione X di una serata X e ne mantenesse vivida la memoria.
Quel che però più mi colpiva era la luce dell’immagine, un lunghissimo chiaroscuro azzurro-tenebra che delicatamente sfumava in ambra, quello tipico del far-della-sera estivo, che sembra non finire mai e che fa completamente dimenticare quanto tempo sia passato dal buio dell’ultimo inverno e quanto manchi prima del prossimo. 
Potevano essere le dieci meno venti e ci si vedeva ancora: una sorta di piccola aurora boreale al contrario.

Celebrare l’Estate, ecco, quella fotografia era un modo stupendo per celebrare l’Estate. Niente canzoni o rime facili, nessun tormentone alla radio e nessuna moda del cazzo; per me l’Estate era ed è proprio questo: un’immagine da tutti i giorni ma resa speciale perché immortalata in uno diverso dagli altri, forse in quello più bello di tutti, il turning point dell’anno, che segna un prima e un dopo. Un’immagine brensa, ricolma di vita seppur sigillata in un istante, solo in apparenza insignificante.

Su indicazione del Bret, un pezzo bomba

Sebbene siano passati moltissimi anni da quella sera e la Riviera sia diventata per me molte altre cose, il ricordo della fotografia dei camerieri mi ha sempre accompagnato con il suo valore più grande, quello dei giorni che non finiscono, che contengono spazio e tempo per vivere quanto più possibile, immagazzinare ricordi e salvare frammenti di spensieratezza cui appigliarsi quando tutto fuori sembra dire male o remarci contro. Per ogni Estate che ho trascorso da allora, quell’attimo di contentezza era l’obiettivo da raggiungere, l’ottimo da ottenere. Per cui non mi sono mai permesso di perdere nemmeno un minuto del mio tempo libero estivo, mi son sempre ripromesso di godere di ogni secondo di luce, di far durare Maggio, Giugno, Luglio, Agosto e, perché no, Settembre, più che potessi.

C’è sempre modo di migliorarsi e, come era solito dire il Drake, la vittoria più bella è la prossima, ma nella “settimana brensa” che avrebbe potuto dare il nome all’articolo, sono andato molto vicino a quella sensazione di felicità che ho provato ad anticipare con questo preambolo e che cercherò di spiegare nelle righe successive. E, si badi, a voler fare i pignoli tutto questo è avvenuto in Primavera perché, tecnicamente, il solstizio d’Estate cade il 21 di Giugno, come era riportato sulla fotografia, mentre ciò che segue è avvenuto prima. 
I don’t mind, esigenze narrative e/o licenze poetiche: transeat.


Sabato 10/06/2017, Villa Boschetti – San Cesario.

Matrimoni Emiliani: I love'em

Ogni matrimonio ha il suo perché e a volte qualche perché no. Fortunatamente sono pochi quelli in cui ho sperato venisse presto l’ora di evacuare la zona, della maggior parte conservo meravigliose seppur labili (e i contorni poco definiti sono un omaggio dell’alcol) memorie. Ce ne sono alcuni però che possiedono un peso specifico inestimabile, ossia quelli dei migliori amici, di quelli più cari o dei compagni di classe. 
È come se fosse una Festa di Compleanno 2.0, s’avesse l’autorizzazione di dire fare baciare lettera testamento, e venissero previsti condoni e indulgenze plenarie per sguardi equivoci, parole storte o brindisi che hanno insanguinato di vino camicie appena uscite dalla sartoria.
Quando poi si ha l’onere e l’onore d’essere testimoni (ed io, non lo dico per vanagloria ma per sincera contentezza, lo sono stato per tre volte) si vive uno particolare stato di grazia che amplifica e giustifica un maggiore grado di gioia ed entusiasmo. Che poi per il prossimo questo si traduca nel rendersi pesanti e insostenibili, amen, dettagli.

Esistono vari tipi di amicizia.
Si può essere amici di infanzia o esserlo diventati perché della stessa compagnia. A volte il legame deriva dalla pratica comune di una disciplina sportiva o dall’avere costantemente a che fare sul posto di lavoro. Se si è particolarmente fortunati si creano amicizie anche dopo i venti anni, quando percorsi laterali si incrociano all’improvviso, facendo uscire allo scoperto persone che, pur non sapendolo, aspettavano solo di conoscersi. Esiste però un tipo di amicizia che trascende tutte queste ed è quella che nasce e cresce sui banchi di scuola, in cui l’appartenenza a un non-senso comune si trasforma in un sentimento di cameratismo non diversamente replicabile, e questo perché si impara a condividere gioie e dolori dei compagni, si fanno propri gli obiettivi raggiunti e gli insuccessi altrui, le grandi perdite e le piccole conquiste di qualcun'altro diventano le tue.

Ciò che viene generato da sensazioni di questa natura è l’annullamento di qualsiasi distanza di spazio o tempo. 
Oltre la Maturità ci si può perdere di vista per mesi, a volte anni, trasferirsi in un altro paese, cambiare giro. Eppure ritrovarsi, anche se di tanto in tanto, abbatte ogni barriera perché il “trascorso insieme” è qualcosa di visceralmente attecchito dentro e, come scriveva Tolkien:”Le radici profonde non gelano”. E allora rivedersi, seppur una volta a stagione, è come se ci si fosse salutati il giorno prima, è come se nessuno si stupisse se, passato molto tempo, lo sbronzone di turno fosse rimasto tale, l’attaccabriga di livello mondiale non fosse cambiato di una virgola, il tombeur de femmes si fosse solamente adattato ai mezzi di comunicazione moderni e l’intellettuale del gruppo continuasse a squadrare gli altri con un misto di “che bello ma che bello” e “ma chi me lo fa fare di vedervi fare ancora schifo dopo tanti anni?”

Giuro che avrei voluto scegliere una foto insieme ma "Oscar Giannino strikes again" ha vinto.

Detto ciò, anche per smorzare l’eccessivo grado di stucchevolezza che potrei raggiungere se continuassi, a referto vorrei appuntare alcune cose brense che vale la pena menzionare per non correre il rischio che vadano perse tra i meandri delle chat di whatsapp.
Checco che manda affanculo fotografi e fotografati. Il Grego di Dufo. Essere a tavola con i genitori della sposa e sperare che non abbiano sentito nulla dei nostri discorsi. Goppy che parla di Feng Shui quando è quello che tiene le birre da 33 nel cassetto basso del frigo dove solitamente la gente normale mette le verdure. Io nella parte di Oscar Giannino II – Il Ritorno. Checco che intona Voodoo People. Aver costretto il DJ a mettere Wonderwall e averglielo ricordato vergandolo sul tavolo. Gente che perde i sensi o a cui escono i gomiti. Noi che cerchiamo di convincere la sposa che un matrimonio senza l’arrivo dell’ambulanza non può dirsi veramente riuscito. Checco che si sveglia a casa di Goppy chiedendomi che ore sono perché forse è meglio se chiama a casa.


Vabbè, la metto lo stesso, e ciao che t'amavo.


Flash Forward

Svegliarsi su un divano altrui in un paese diverso dal proprio solitamente presenta più contro che pro, elenca più contrari che sinonimi di benessere, ma ha anche tanti “perché sì” riguardo cui è spesso bene non indagare. Alle sette e mezza di domenica mattina il caldo e la luce che spuntano dal balcone di casa di Goppy mi destano dal torpore alcolico e l’autobahn per il mare mi attende. Ho un hangover fotonico ma a Cattolega sono di istanza donna Ilenia, la piccola Benedetta e mia madre, ed io avverto il bisogno fisico e mentale di ricongiungermi a loro perché, come canta Divi:”Che bello che era avervi attorno, come aver trovato un posto al mondo dove alla fine fare ritorno”
Saluto l’ospitale ex-rappresentante di classe a cui rifiuto l'offerta di un caffè, mossa della quale mi pentirò amaramente, e mi dirigo verso la nuova e sperduta entrata di Valsamoggia.

E aver paura che cominci il giorno e che la luce ti cancelli il sogno

Percorrere l’autostrada può sembrare un “atto mancato”, Freud lo avrebbe definito così o in maniera simile. Forse è più un piacevole sovrappensiero o il trasformare qualcosa dal passato ombroso in un momento felice. L’A14 è spesso stata, per me, una strada di sacrificio (si legga qui) e perché un giusto revisionismo storico mi permettesse di rivalutarla sono passati anni. Quel che mi è rimasto si rimaterializza nella mia mente mentre guido, ancora una volta, da solo e non accompagnato, immerso nei miei pensieri e nei nefasti ricordi di tempi che furono. Eppure, nonostante sia dritta, noiosa, per nulla interessante e monotona, non riesco a non farmela piacere. Da che sono bambino sarò entrato in ogni autogrill, mi sarò fermato a pisciare in quasi tutte le piazzole di sosta, sarò uscito ad ogni casello tranne da quello di Castel San Pietro Terme che, ogni volta, mi chiedo che paese possa essere, specie questi giorni in cui una mia amica di facebook si è geolocalizzata proprio da quelle parti.

Imbocco lo svincolo di Cattolica, l’ultimo nonché il più a Sud dell’Emilia-Romagna. 
La Riviera è sempre, come per magia, uguale a sé stessa. I bagni, la bomba, le granite alla menta, i tedeschi con le calze e le infradito, le stazioni dei treni, i viali alberati, gli anziani di adesso vestiti come gli anziani di trent’anni fa, le generazioni che si ripetono nello stesso identico modo, le edizioni cittadine de “Il Resto del Carlino”, gli edicolanti che rispondono in crucco anche a te che sei italiano, i risciò, i fotografi sul bagnasciuga, i ristoranti di pesce ogni tre metri, il profumo di cappuccio e cornetti che di mattina pervade i corsi interni, l’odore della salsedine, il bar sul pontile dove vorrò passare i miei ultimi giorni scrivendo le mie memorie. Le uniche cose che sono cambiate sono la gestione dei negozi di paccottiglie, ora in mano al racket di indiani e pakistani, e la mia tardiva scoperta della piadina con la porchetta. Mancano le cartoline, quelle delle donne con le chiappe sabbiose al vento o dei pedalò innevati sulle sabbie invernali, deserte e malinconiche. Come ho già avuto modo di ribadire in altre sedi, a volte sembra tutto troppo, nel senso che c’è il rischio di farsi incantare da tanta inezia e accondiscendenza. Di contro però l’essere serviti e riveriti ad ogni angolo, o il sentirsi coccolati e al centro dell’attenzione, mette di buon umore, fa scordare le beghe del lavoro e accantona i cattivi pensieri. Un atto mancato muta, in un attimo, in una linea di rottura: venire in Romagna cambia radicalmente l’approccio alla vita generando un atteggiamento nuovo e più polleg.


La luce che rimbalza sull’acqua della piscina del bagno "I Delfini" sembra incandescente, irradia riflessi ovunque, un brillante arcobaleno blu. Da mezzo montanaro ma soprattutto da homo sapiens varietà cittadinus faccio fatica ad acclimatarmi ed entrare in vasca adattandomi al nuovo elemento, specie perché ho ancora addosso una botta memorabile per cui ogni dettaglio mi risulta tutto troppo chiaro, colorato e accecante, e anche portare gli occhiali da sole “da vecchio” (così disse Santu a Trento) aiuta ma è sempre un circa-quasi. 
Domenica e Lunedì volano via, è un costante susseguirsi di “Pictures of You” dove il “You” è la piccola che s’azzarda a camminare sulla riva con mia mamma che le stringe le manine mentre lei sorride, gattona intorno agli ombrelloni volando sulla sabbia ogni tre per due, lancia i giocattoli fuori dal gonfiabile (ed è la prima volta che, cucendo gli scontrini sui miei taccuini ne trovo uno con la dicitura “giocattoli”, che stona e fa specie rispetto a tutti gli altri, che sono a saldo di birre comprate a “Tutto a 1 €uro”, piadine, cocktail), caga nel gonfiabile, sguazza in piscina. 
Momenti non barattabili che riconciliano col clima infame in cui si è costretti a vivere quotidianamente, che smorzano le cose brense di tutti i giorni lavorativi, un impegno enorme ma leggero che dà implicitamente risposta ad ogni domanda di merda che mi tiene sveglio la notte. 


Ha senso inacidirsi lo stomaco davanti a mail urgenti, richieste brucianti, obblighi necessari solamente se il feedback non viene da quel mondo ma da un altro, questo, perché sono gli unici momenti in cui sembra di vivere altrove e in nessun posto e, nonostante sia reale per troppo poco, è il migliore tra tutti i possibili places & times to be.


Rivoluzione Industriale 3.0

La sola nota positiva del tornare a casa dal mare è fare tappa in autogrill. 
La classica rustichella strinata fuori e cruda dentro è un sacrale musthave di una cena lungo la strada. Anche perché poi, a tarda sera, quando a banco non c’è più anima viva, anche i commessi paiono più felici nel servirti un caffè americano che neanche in Twin Peaks. Insomma, pure non-luoghi (o luoghi-altri) come questi, dove “brenso” è la parola d’ordine si scoprono calorosi e confortevoli: non dico che vorrei passare qui i miei venerdì sera più ribaldi ma dico che per un non-tempo, ricavato tra un’entrata e un’uscita autostradale , possa essere il posto giusto dove trovarsi certe sere.

Avete presente quei pezzi che ascolto diecimila volte e non mi annoiano mai?

Se sono ben disposto a rincasare di lunedì sera, consapevole che l’indomani mi aspetta un tremendo rientro al lavoro dopo un week end di matrimonio + fuga al mare, è anche perché le condizioni di ingaggio autostradali ma soprattutto la colonna sonora sono adeguate e rendono il ritorno alla quotidianità meno complicato. Non lo decomprimono né lo possono depurare da ogni futura ed eventuale controindicazione ma di sicuro gli conferiscono un sapore più accettabile, un retrogusto agrodolce: ho mandato giù di peggio facendo finta d’essere pure contento.

Cose buffe che si trovano nei bagni degli autogrill

E va bene così perché tante volte mi ritrovo a pensare alla nostra epoca come fosse una sorta di nuova rivoluzione, dove la pesantezza non è dei materiali o delle idee, e va oltre il concetto di “Produci Consuma Crepa”; è piuttosto una gravità mentale che ci attanaglia costantemente: sono gli ASAP, i FIY, i “Priorità Urgente”, i “Magari in giornata”, le "Conference Calls" in pausa pranzo per guadagnare tempo. Tutte cose che, nemmeno troppo alla lunga, mandano in pappa il cervello perché siam diventati sincopi delle nostre stesse macchine, siam costretti a lavorare in multitasking senza esserne in grado, dobbiamo accettare ogni scambio senza poterci più lamentare, creare prassi nuove ogni volta, appellandoci in ultima istanza ad un senso del dovere che ha perso il suo più puro significato molto prima della crisi di qualche anno fa.
Come cantava Lorenzo quando non aveva ancora le tafche piene di faffi:”Le regole non esistono, esistono solo le eccezioni”.

Il ragazzo non ne sbaglia una

Ci sono giornate in cui vorrei uscire dall’ufficio, volare a casa e bere quanto basta per ubriacarmi e dormire da signore, sperando di sognare tutta la notte. Non succede quasi mai ma con le ragazze al mare posso concedermi uno strappo alla regola e addormentarmi sul divano dopo aver bevuto due birre in piena modalità Homer Simpson.
Capita raramente di ricordarsi i propri sogni, per non dire che non capita mai. Ebbene i sogni della notte sono addirittura due e li rammento perfettamente entrambi. Se il primo è qualcosa di orribile e, proprio in virtù di questo, indimenticabile, per il secondo occorre aprire un tra-parentesi.


Su imbeccata del Bret, mi sono infatuato di una di quelle cose che possono piacere solo a me e a chi ha la mente malata come la mia: “The Man in the High Castle”. Basata sulle righe de “La svastica sul sole”, romanzo di Philiph K. Dick, l’ucronia all’origine di questa serie è che non siano stati gli Alleati a vincere la Seconda Guerra Mondiale, bensì le potenze dell’Asse. Al di là della trama o dell’indiscutibile fascino Nazi, è intrigante la rivisitazione di una Storia completamente diversa ma, per tanti tratti, uguale a quella che conosciamo noi. Non è tanto lo stupirsi del “Come sarebbe andata se…” quanto il rendersi conto che, pur dandole per scontate quasi fossero un male necessario dell’indotto democratico, la nostra civiltà occidentale abbia sopportato brutture e storture cui non si è dato alcun peso o cui nemmeno si pensa più. 
Avrei divorato anche la seconda stagione ma purtroppo non ho avuto tempo e sto centellinando la visione delle ultime puntate, godendomele più che posso e nell’attesa che Amazon Prime confermi (quasi certo) la terza temporada.

I sogni hanno inneschi oscuri ed enigmatici, combinano tra loro fattori che, solo formalmente, potrebbero risultare ininfluenti o di poco conto. 
E dunque succede che a cena si parli del funerale di una persona, si arrivi a fare un discorso più ampio sulle epigrafi e sul significato che possono avere, circa l’importanza di diffondere notizie tristi ma con cui intercettare l’interesse di più gente possibile, far così sì che anche un necrologio possa tradursi in affetto e compassione. Può anche capitare, e lo stalking su facebook se applicato in dosi minime ne è prova, che ogni tanto si cerchi un contatto denotificato da tempo, giusto per vedere se è ancora al mondo e come se la passa. Infine, se a questo aggiungiamo la sbandata presa per l’uomo nell’alto castello, allora il pranzo o, meglio, il sogno è servito: cotto e mangiato.

Ebbene, l’incipit era in medias res: evidentemente, ad un bivio della mia esistenza, nella dimensione onirica avevo preso una strada diversa da quella battuta nella realtà del mio nowadays. Nel nuovo slice of life vedevo me stesso in una vita completamente differente dall’attuale, circondato da persone conosciute ma inconsuete, discutendo con esse di quello che era e di quello che sarebbe stato: un concentrato di serene e tranquille distopie. Pioveva intensamente, non a dirotto ma con insistenza, tra luci soffuse grigie e bluastre, che se fosse stata l’ambientazione di un film sarebbe stata quella di Blade Runner. Mi son svegliato a malincuore perché, complici le birre bevute prima di addormentarmi, il bisogno di andare in bagno era diventato impellente e forse tutta l’acqua presa in sogno era uno spiccato richiamo a Inception. Sebbene non potessi affermare di essere in sogno più o meno felice di quanto non lo fossi e non lo sia nella realtà di tutti i giorni, mi sono rimaste appiccicate addosso sensazioni di grande dolcezza ed emozioni lenitive. Era come in “The Man in the High Castle”, dove è concessa ad alcuni personaggi la gravosa possibilità -SPOILER ALERT- di scappare dal mondo in cui vivono e dischiudere, per sempre o anche solo per un momento, universi paralleli.
Non vivendo nella New York del Greater Nazi Reich o nella San Francisco dei Pacific States, io questa opzione non ce l’ho, tuttavia il sogno è stato un seducente intermezzo, è stata una serie di cose brense, che, anche solo in parte e per pochissimo tempo, mi hanno riappacificato con il mondo di merda che mi tocca affrontare dalle sette e mezza di mattina alle sei e mezza di sera, tutti i giorni feriali.
O forse, più verosimilmente, il cambio di prospettiva sognato era dovuto allo scherzo di qualche bontempone che mi aveva sciolto dell’LSD nelle Moretti.

Un attimo che calo la briscola e spacco il tavolo.


La felicità è senza limite, viene e va

Son tornato a lavorare il martedì, il mercoledì e il giovedì e, se dovessi definirli, li direi "sturmunddranghiani". Dopodiché mi sono bellamente disintegrato i coglioni dell'aver a che fare con una pletora di casi umani che la metà bastava, che mi son giocato un altro giorno di ferie per raggiungere nuovamente le mie donne al mare.
Partito alla bersagliera quando il tramonto faceva capolino, con addosso tutte le nevriti della settimana corta, son riuscito ad estinguerle nei pressi di Forlì quando, pescando dal mazzo dei cd di donna Ilenia, ho messo su T.R.E e me lo sono ascoltato in rigoroso silenzio fino a Cattolica. Fondamentalmente è stato come richiamare alla mente una liturgia assopita ma mai dimenticata.
Gobi e Bolormaa, forse più la prima della seconda, sono state l'epifania in musica del mio stato d'animo. Il frastuono confuso delle chitarre che lascia campo ad un mantra, gli armonici e le parole semplici quanto struggenti: un traboccamento di gioia e dolore, la consapevolezza che non esistono equilibri ma solo equilibristi della vita.

Anche se solo per una sera e per il venerdì successivo, il tempo trascorso in spiaggia è stato, ancora una volta, catartico. Giovanni Lindo in una delle due canzoni sopraccitate cantava che "Densamente spopolata è la felicità" ed è assolutamente vero. Tuttavia certi momenti bisogna conquistarseli e beneficiarne quanto più possibile, che tanto o si è in credito col Dio o col Karma e prima o poi uno dei due presenterà fattura. E allora mi si scioglie il cuore nell'accompagnare, insieme a donna Ilenia, i primi passi della bimba sul bagnasciuga mentre tutta la gente si ferma a guardarci, ogni brutto pensiero è spazzato via nel vederla sgambettare in piscina e sentirci chiedere a quanti mesi l'abbiamo portare a fare acquaticità e a farle avere familiarità con l'elemento.
Mi rendo conto di due cose.
La prima è la fortuna del trovarsi nel miglior percorso in cui Dio, o il Karma, ci abbiano instradato. Domani sarà un altro giorno, ma intanto festeggiamo il festeggiabile che per spiegarci sconfitte o battute d'arresto abbiamo tutto il tempo di questo mondo. Spieghiamo solo le braccia alla creatura.
La seconda è che la vedo già a quindici anni, quando io sarò la persona più imbarazzante ed impresentabile della sua vita, e non solo perché conto di bere molto più di adesso ed innervosirmi per molte più cose, ma anche per tutta una serie di dettagli che sono lapalissiani senza bisogno di entrare nel merito. Dunque, per quanto suoni stucchevole, per quanto potrei vergognarmi, anche solo tra dieci minuti da adesso, di aver pensato e scritto queste cose... tenermela vicino, sentire la carne che cresce, quella felicità di cui parlano i C.S.I., qualche abitante, seppur per poco, lo conta.

Punto primo chiudiamo un cerchio.
Punto secondo quando ce vo', ce vo', fosse solo per un attimo



Intervallo di folklore contadino.
La mattina mi son svegliato prestissimo e sono andato a correre. Sono arrivato fino all'hotel in cui siam stati l'anno scorso a Gabicce. Sebbene credessi fosse in un altro emisfero, distava tre chilometri e mezzo dal nostro residence a Cattolica. Fa ridere perché in macchina ci vorrebbero venti minuti e comunque si passa da una regione ad un'altra.
Promemoria da calendario di Frate Indovino.
Mentre correvo mi son fermato a vedere e visitare tutte le chiese incontrate lungo la via, compresa quella in cu iero stato a Messa la scorsa estate. Fa specie rivedere un luogo di culto dopo tanto tempo, fa piacere tornarci, è confortante sapere che certe preghiere non sono rimaste inesaudite. Il notabene è che quando al mare indicano gli orari "estivi" delle celebrazioni, intendono dal primo di Giugno all'ultimo di Settembre, in pratica la stagione turistica, quella dei bagni. Ci sta, le giornate iniziano in oratorio e finiscono in osteria: makes sense.


Outro



La settimana brensa, calendarizzata da sabato a sabato, si è conclusa con il matrimonio di una cara amica di donna Ilenia, in una magnifica location sulle colline di Pavullo. Ero talmente coinvolto emotivamente dai giorni precedenti che, come direbbe Santu:"Paesaggio". È stato tutto sicuramente fantastico ma solamente un contorno, un ad libitum sfumando, quando la canzone rimane bella ma ha già detto tutto quello che aveva in pancia.

La settimana brensa, calendarizzata da sabato a sabato, si era aperta con un taglio tattico alla Barberia di Pavullo.
Fa ridere che io vada dal barbiere, lo so.
Il fatto è che c'ero andato per rifilare barba e rasarmi la cabeza da soldato, pronto per far vedere il miglior me al matrimonio di Chicco.
Mentre mi slamava il gargarozzo, il Figaro del Frignano mi chiedeva se scrivessi ancora, se suonassi ancora, se giocassi ancora a calcetto. Gli ho risposto che no, non facevo più nulla di tutto questo.
"E allora cosa fai? Casa, lavoro, famiglia?"
"No, be'. Ogni tanto porto via il rusco. Ma non vado nei pattumi più vicini, vado in quelli più lontani così ho tempo di fumare una sigaretta in più senza che nessuno mi rompa i coglioni".
In realtà non è proprio così: è che se alla domanda "Cosa fai?" avessi risposto:"Cose brense", il barbiere non avrebbe capito, avrei dovuto spiegare, raccontargli a voce tutta questa sbabbelata e considerando quanto aveva da tagliare, il tempo non sarebbe stato sufficiente.
Intanto dovevo celebrare l'estate, seppur condensata in una sola settimana di tarda primavera o in una scatola da scarpe, descrivere l'ottimo raggiunto e tenerne buona nota, sarebbe bastato e basta saper questo.

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