Dimenticare le abitudini

Flashbax

Purtroppo si vive in un mondo in cui c'è gente che ha un sacco di tempo da perdere e molto spesso decide di farlo perdere proprio a noi, e dopo diventa difficile far stare quel "meno" dal peso specifico incalcolabile in un "più" che solo dopo risulta scarso e per nulla scontato.

La scelta delle immagini è quasi importante quanto quella delle parole.

Mettiamo una sera a Vienna, tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo, durante la gita della VD del Liceo Scientifico Alessandro Tassoni di Modena. 
Va in onda una scena di vita reale che non sono mai riuscito a scucirmi dalla testa e ora, quasi trascorso il tempo di una generazione, capisco perché. 
Una ragazza dall’indole poco chiara, senza arte né parte, rivolge alla Professoressa responsabile della trasferta quello che lei crede essere un complimento:”Sa, Prof? Sta bene vestita così: è molto giovanile”. Di tutta risposta, la docente di Italiano e di Latino la squadra, misura le parole e, ben attenta che tutti i presenti la stiano ascoltando, sentenzia:"Signorina Bianchi, non c’è niente di peggio che dire ad una persona di una certa età che sembra giovane”
Come si collega questo aneddoto al titolo del post? 
Con una gincana di pensieri che nemmeno il più fervido degli elettori di Liberi e Uguali potrebbe immaginare, credo. A parte gli scherzi c’entra perché cambiare le abitudini per poi dimenticarle presuppone una profonda trasformazione delle proprie consuetudini, significa che da qualche parte c’è un passaggio in cui sono i tratti della nostra stessa vita ad essere cambiati.

La cosa cui "To get rid off + accusativo" somiglia di più è il nostro "sbarazzarsi di". 
Good Riddance risulta dunque abbastanza intraducibile, non c'è un equivalente italiano che non sia un tristissimo e povero "Che liberazione!" o "Finalmente!", né ha alcun senso o è corretto dire "Buon sbarazzamento!".


Spiegone

È un po’ che covo la voglia di scrivere qualcosa di bello, che sia io stesso ad apprezzare, che sia all’altezza di Cose brense, il mio penultimo articolo, ma anche qualcosa che, più semplicemente, mi venga voglia di rileggere a distanza di mesi o anni. E non solo per poter riavvolgere il nastro mentale della mia memoria ogni volta ne abbia voglia ma anche per compiacermi di aver messo nero su bianco parole che possono resistere alla prova del tempo e che, come dico sempre, sarebbe peccato andassero perse.

Lubiana, 16/08/2017

Per qualche mese ho provato a descrivere le mie ultime vacanze ma, per quanto tenessi a mettere un punto alla storia della scorsa estate, non sono arrivato da nessuna parte, anzi. Mi sono reso conto che, per quanto sia importante sbobinare i vari appunti di viaggio (se non altro perché un giorno possano essere letti da chi viene dopo di me) mi sto ripetendo. 
È come se cambiassero gli accordi ma la struttura della canzone restasse la stessa. 
Non penso sia un caso che ci sia un vecchio pezzo di Noel Gallagher intitolato While the song remains the same, che non solo dà il nome all’album (è proprio di quelle liriche il discusso ed evocativo binomio di parole Chasing Yesterday) ma in cui The Chief canta anche:”It’s a shame how a memory fades to grey”. Come al solito c’è un tizio di Manchester che prima di me ha tratteggiato in maniera molto più precisa, sintetica ma soprattutto poetica pensieri che poi sarebbero e/o sarebbero stati anche i miei.

Restando on topic, e se ci fosse un hashtag quello sarebbe #noelgallagher, stanno comunque bene dette due cose.
1) Sebbene sia innovativo e straricercato, nel nuovo disco Who built the moon? il maggiore dei fratelli Gallagher a volte insegue ancora lo ieri del suo background musicale e stilistico ma, tra una sforbiciata e qualche effetto alla New Order, trova anche passati migliori precedentemente non pervenuti. 

"You sung that with more spirit that time"

2) Sempre Noel, in un’età contemporanea a quella dell’aneddoto viennese di cui sopra, scriveva anche il testo di Just gettin’ older, demotape contenuto in un b-side di Standing on the shoulder of giants degli Oasis. A corollario del fatto che qualcuno abbia già detto tutto, m’è sempre rimasta appiccicata addosso una frase che mi accompagna da allora:”I’m not crackin’ up, I’m just gettin’ older”.

Per qualche settimana ho provato a raccontare di una surreale colazione novembrina in $ud Tirolo, insieme ad un amico. Prima o poi finirò di descrivere l’episodio accadutoci e, anche nel caso non riesca a riportarlo sul blog, mi stamperò qualcosa per me da custodire sui miei taccuini. Se non altro per la singolarità dell’evento e per come si collocasse perfettamente nell'hashtag #timeisaflatcircle.

Presente quei posti che non hanno niente di bello fuori, spesso nemmeno dentro ma che poi fanno lunghissimi giri e poi ritornano? Tipo.

Infine, senza pretesa alcuna, mi sono appuntato alcuni particolari di un momento vissuto con la mia bimba in Via del Taglio a Modena, qualche ora prima dell’ultima mezzanotte del 2017. Un vero e proprio componimento in versi di un pezzo di vita. #telle

Tuttavia ho avuto come la chiara percezione che nessuno dei tre argomenti summenzionati fosse quello su cui concentrarsi perché rimanesse agli atti. Dopo lunga disanima tra me e me ho stabilito che avesse più senso cambiare la trama delle storie prima che queste languissero e fosse più appropriato cimentarsi nella redazione di una sorta di diario del disincanto, senza dissimulare alcuna nostalgia. E per quanto possa suonare brutto, in realtà è come riconoscere che a volte sono le note che non suonano, e non quelle che suonano, a sentirsi meglio. È come se “uscire a rimirar le stelle” non fosse propedeutico a niente ma occorresse piuttosto delimitare la vista per vedere più lontano.

E quindi? Proviamo ad individuare possibili inizi


Inneschi

Vari, gli inneschi sono vari, i dati da processare sono molti e, all’attuale stato dell’arte, troppi pensieri risultano ancora sconnessi.

Volendo però fare ordine e cercando di giocare una partita alla volta, in the first place parto da un articolo letto su uno dei miei siti di riferimento, ossia Musicademmerda, intitolato "Splendidi Ventenni - I Migliori Album del 1997".

E questo è niente

Realizzare che sono passati vent’anni dal 1997 è uno shock, capisco che ha poco senso perculare mio padre quando, guardando 1968 di Buffa, mi dice che stava sveglio fino alle quattro del mattino per guardare le Olimpiadi e due ore dopo era già al lavoro. Sono un vecchio di merda, sia mentalmente che socialmente, ma lo sono anche all’anagrafe, non solo quella del Comune, pure quella musicale. 
Nulla vale autoconvincersi che un pezzo dei Prodigy suonerebbe attuale anche oggi (vedi playlist); sto solamente diventando come mio padre, il quale è come avesse fatto un salto tra la sua gioventù e la mia, come se nessun’altra band avesse suonato nel frattempo e/o nessuna canzone degna di nota gli fosse entrata dentro. 
Come se il suo 1968 stesse al mio 1997, la sua Gimme shelter dei Rolling Stones stesse alla mia Song 2 deI Blur, e come se ognuno dei due avesse, al netto di rivoluzioni armate e intellettuali, il proprio totem annuale musicale. 
Tuttavia non è assolutamente vero che io non abbia seguito ciò che è successo in questi vent’anni, ci mancherebbe solo, ma rimane vero e altrettanto sconsolante che leggendo la classifica dei migliori album italiani del 2017 su Rock.it mi accorgo di conoscerne solo tre, e considerando che la lista contempla venti nomi, la percentuale non depone a mio favore. A mio vantaggio va segnalato che al secondo posto c’è un artista di cui io ho intuito il talento quando non era nessuno (e che tra l’altro ora mi fa cagarissimo): il buon vecchio Vasco Brondi.
Ma amen, transeat.

O non mi sono arrivati loro o non sono arrivato io

Un po’ per orgoglio e un po’ per necessità intellettuale ho recuperato tutti i dischi che mancavano al mio carnet e li ho messi, come si sarebbe detto una volta, sul lettore. Mi sono stupito grandemente quando ho riconosciuto il testo di un brano di cui Santu mi aveva fatto menzione quasi un anno fa (Willie Peyote - I Cani) e la bravura di un artista già battezzato da Checco (Andrea Lazslo De Simone - Vieni a salvarmi). Invece, su Coez e la sua Le luci della città, riguardo cui Derre aveva parlato a me e Berta a Reggio Emilia durante un concerto dei FASK, sospendo il giudizio.

Comunque sia questo rimane il più forte di tutti e i suoi occhiali da sole sono formidabili

La morale della storia è che non conoscere la stragrande maggioranza di questi album ha fatto da termometro, mi ha dato l’idea del mio rapporto con le novità del mondo, ossia comprendere che non per forza vent’anni fa, anche solo cinque, ero io le novità o per lo meno sapevo quali fossero o ero in grado di rappresentarle: parlassimo di musica, di serie TV, dello smartphone più performante, del locale to see e into being seen. Ora è diverso e, sebbene possa essere al corrente di tutto queste robe, sono saltati i collegamenti e sono sempre un passo indietro a ciò che è nuovo: mi sembra d’essere come Costacurta a fine carriera nel Milan, tengo la posizione ma solo perché presumo di avere ancora la classe per dire agli altri come si fa.

Se poi ha avuto la fortuna di giocare con Il Genio puoi dire agli altri quello che ti pare che tanto va bene.

Un po’ il passato che ritorna e un po’ come secondo innesco, anche avere a che fare al lavoro con persone che nel 1997 ci sono nate mi fa pensare. Si tratta di ragazze e ragazzi che, pur essendo venuti su a prato e fiori, pur essendo figli di gente tutta casa e bottega, non sono al passo coi tempi, basta loro vestirsi come Chiara Ferragni o aprir bocca per superarli di netto. Il punto allora diventa che l’incedere degli anni può certamente avermi reso migliore o diverso ma allo stesso tempo è corrosivo, mi allontana dal focus della storia di tutti i giorni e provare ad avvicinarmici è un ostinarsi a sentirsi giovani, ed essere giovanili è il peggiore complimento ci si possa rivolgere perché è l’obiettivo più basso in assoluto cui tendere. 
Forse il segreto di tutto è il distacco, accettare lo scambio della differenza d’età ed evitare di incappare nei tipici errori da vecchio, come quando al Tassoni si incontravano gli studenti di una generazione precedente, i quali esordivano sempre dicendo che ai loro tempi si studiava di più, o come quando sul posto di lavoro ci si imbatte in quello che dice che ha sempre fatto il proprio mestiere senza tabella pivot o cerca+vert, e che quindi può continuare a vivere senza le migliorie di excel.

Io nelle calze nere non ho mai trovato nessuna logica ma forse aveva ragione Vasco.

Non è questione di tempi nostri o loro, ed entro a gamba tesa nel terzo e forse ultimo innesco; il discorso è un altro, tutto muove da un principio di “break a habit”, forma idiomatica imparata nel corso aziendale d’inglese che frequento. 
Questo/a phrasal verb significherebbe, detta letteralmente e brutalmente, interrompere un abitudine. Io però ci ho visto altro o più probabilmente ce l’ho voluto vedere, complice il fatto che posso dire di aver smesso di fumare. Intendo dire che più che “interrompere” un’abitudine, è lecito credere che le abitudini vengano dimenticate. Può allora essere che dimenticarsene una non faccia difetto ma una serie di abitudini dimenticate non corrisponde ad altro se non che al trascorrere del tempo e al cambiare sé stessi. 
È sufficiente sottoporsi ad un questionario personale, domandarsi quand’è che si è smesso di fare qualcosa che s’era soliti eseguire in automatico, chiedersi con quale impegno sia stato sostituito il tempo che vi era dedicato, per quale ragione non lo si fosse mai fatto, se in precedenza non avessimo una slot libera per quella cosa o se, diversamente, non vi avessimo mai dato peso.
Rispondendosi ci si stupisce di quanto tutto sia connesso, di come ad ogni abitudine dimenticata corrisponda un cambiamento di vita: è come se fosse in atto un conflitto interiore e da una parte del ring c’è l’età che avanza, dall’altra qualcosa di diverso, una sorta di perfezionamento della routine. 
Il guaio è che forse, però, sono la stessa cosa. 
I latini dicevano “O tempora! O mores!”, che starebbe per:“Oh che tempi! Oh che costumi!”. Forse intendevano lo stesso concetto, nel senso che in realtà ci si stupisce di niente, ci si è solo dimenticati di una serie di abitudini ma nel frattempo la realtà è mutata inesorabilmente.


Quit smoking

Aver detto basta col tabacco mi ha fatto pensare a cosa abbia voluto dire fumare per tutto questo tempo (e non vorrei che l’anno di inizio si riducesse a pura curiosità ma, tanto per cambiare, direi fosse il 1997 o comunque giù di lì, avevo sedici, diciassette anni), e non per come ho investito i miei danari, a certe tempistiche da rispettare, ai tabaccai preferiti, all’aver conservato i pacchetti di sigarette comprate all’estero… no, non è questo. E nemmeno si tratta di una formalità o di una questione di qualità, per dirla con Giovanni Lindo Ferretti.

Non si prescinde da questa canzone

Torna in ballo la stessa Professoressa di cui sopra, la quale era solita dire che fumare fosse gestualità: non era un vizio o una trasgressione. Era piuttosto un piccolo cerimoniale da consumarsi secondo determinati riti, fossero questi privati o interpersonali. Fumare in macchina, fumare dopo il caffè, fumare al bar con gli amici, fumare ai concerti. 
E per me stabaccare è stato proprio questo: piccoli grandi gesti da compiersi necessariamente o per prassi in precise circostanze. Di contro, smettere è stato come venire meno ad una sorta di tradizione personale, dimenticare un abitudine, liberare slots e occupare quei tempi in modi diversi. 
Da questa riflessione mi sono avventurato in un intimo a rebours ripensando a tutto ciò che ho interrotto e poi sostituito e, scavando nel mio passato più o meno recente, mi sono accorto di quanto tempo fosse trascorso, di quanti vezzi si siano trasformati e abbiano cambiato forma, tracciando un solco tra qualcosa che c’era prima e qualcosa che è venuto dopo certe abitudini.

Non so, prima di cambiare macchina, in pausa pranzo andavo a fare metano due volte a settimana. Ora che ho una Punto a gasolio, faccio il pieno a inizio e metà mese. In quelle due pause pranzo che mi si sono liberate vado a fare spesa da Rossetto, supermercato che pratica i prezzi più bassi della provincia e compro lì sia l’acqua, che la birra che la focaccia con lo stracchino (addicted to). Può tutto sembrare banale e irrilevante, sicuramente lo è, e non è mia intenzione trasformare una vicenda di vita quotidiana in una canzone dei Massimo Volume; tuttavia recarmi nel più grosso market di Spezzangeles significa anche non fermarmi più di prima mattina nei forni e nelle botteghe di paese, dove tutto costa di più -sure thing- ma in cui c’è tutto un altro calore e tutto un altro colore. Ho sacrificato tanta poesia per un po’ di sostanza e, se ci penso, tutto è dipeso dall’aver venduto la Panda ad un casaro di Merano sul Panaro che, poveretto lui, si sarà sicuramente incazzato al primo crash della radio.

Prima che lo zio di donna Ilenia si ri-trasferisse per lavoro in Riviera e ci invitasse qualche giorno là con la bimba, i/le bank-holidays, i long week-ends e i ponti erano occasioni per fuggirsene in Toscana o nelle Marche. Ora che ogni fine settimana abbiamo un appartamento disponibile a un chilometro dal mare e ad un’ora e mezzo da casa, è prepotentemente tornata in auge la Romagna, e sebbene sia strafelice di aver messo sulla mappa la Versilia, la Garfagnana, il Chianti, l’Umbria e il Maceratese, faccio fatica a deviare dal bersaglio oltre il Sillaro. Dal nulla s’è venuta a creare una nuova comfort zone e sento l’impellente bisogno di riscoprire una terra che colpevolmente ho cagato poco per tante e troppe stagioni della mia esistenza. Anche in questo caso può sembrare niente, poco più di una voglia estemporanea, una golosità turistica; invece no, dentro di me alimento l’idea di costruire un futuro da quelle parti, fosse anche solo trovare una soluzione estiva in affitto.

Immagini che valgono più di mille parole

Da quando non controllo più il mio metabolismo o, forse meglio dire, da quando il mio metabolismo controlla perfettamente il mio organismo e fissa con puntualità svizzera gli orari in cui andare a cagare, ho abbandonato la Messa delle 7.30 nella Cappelletta di Maranello, perché a quell'ora devo andare in bagno. A seconda degli impegni e delle intenzioni ero uso andarci qualche mattina, e questo fino a quando qualcosa dentro di me è cambiato, cioè i tempi e i modi del mio intestino.
Continuando però a sentire il bisogno di un raccoglimento spirituale ed intimista, ho cercato Messe in altri orari e in altri comuni dell’Hinterland distrettuale, trovando appello nell’ultimo dei paesi su cui avrei scommesso anche solo dieci centesimi: Ubersound, proprio lì, tra una ceramica, una rotonda sulla provinciale, la Lidl, un all-you-can-eat sino-giapponese e una roulotte degli zingari. 
Al di là del folklore, a metà tra l'immaginario collettivo tipico di Calciatori Brutti e una possibile sceneggiatura da La vita è breve de Il Teatro degli Orrori, la Messa vespertina delle 18.30 è comodissima ed è il suo stesso contrario: comodissima perché quando e se mi va posso andarci immediatamente dopo il lavoro, dura mezzora e non conosco nessuno; il suo contrario perché diventa un tempo impegnato in cui potrei fare qualcos’altro, come andare a trovare un amico.

Non trovando una foto di Ubersetto by nite (come del resto avrei mai potuto?), posto uno dei miei ultimi Shazam tanx to Bret

Assodato che ubi maior minor cessat (vedi sopra), da quando sono diventato un padre-sbronzo mi son ritrovato costretto a centellinare gli incontri con gli amici. Sebbene alcune siano diventate più brevi ma più intense, le frequentazioni sono inesorabilmente calate e ho dovuto fare pesanti ma inevitabili cernite. In un qualche modo ho realizzato come siano stati proprio alcuni social media a permettermi di tenere acceso il fuoco di relazioni che altrimenti sarebbero passate in cavalleria.
E dispiace, dispiace tanto: è malinconico come diverse amicizie si convertano a un messaggio su whatsapp o ad un commento su facebook, è spiacevole e quasi preoccupante che si rimpiccioliscano così. Allo stesso modo però, per quanto si tratti di un naturale e processo di selezione, ricorrere a questi mezzi di comunicazione rende la cosa un po’ più democratica, se così si può dire.
Con alcuni amici avevo serate prefissate, con altri suonavo sempre lo stesso giorno, con altri ancora avevo il cinema, condividevo blog e passioni, andavo a concerti o feste, giocavo a calcetto, andavo allo stadio. In questi casi dimenticare le abitudini è ed è stato più doloroso, è come se fosse una sfida ancora aperta, una specie di guerra fredda. Tra me e me penso di dovermi e di dover accontentare, di fare il massimo nel rispetto di obblighi e responsabilità: fatto questo, starà all’intelligenza relazionale e all’affetto sincero degli altri capire il mio impegno. 

Padri sbronzi in tour

Ho sempre avuto il fisico di chi muove il sistema nervoso agli altri e son sempre stato pronto a litigare col cielo solo che non me ne piacesse il colore; ora, anche quando mi sveglio sulle 23, la prima cosa che faccio è attivare il mio periscopio emotivo e fare il punto della situazione: cosa devo fare, quante e quali slots libere mi rimangono, e infine come preservare le abitudini che non voglio dimenticare.
È un delicato equilibrio di sentimenti, alla fine della storia capisco perché Billie Joe non abbia saputo che titolo dare alla canzone con cui ho aperto questo articolo, e abbia messo tra parentesi (Time of your life) e lasciato fuori Good Riddance: agli atti vanno gli "sbarazzamenti" ma quello che c'è dietro è il tempo della nostra vita.
Tutto torna, that makes sense, sia l'apparente intraducibilità del nome del pezzo sia il fatto che sia uscito nel 1997.

Al suo matrimonio, uno dei ragazzi che suonava con me mi ha detto che aver suonato negli Iræquiete è stata una delle esperienze più rock'n'roll della sua vita. Vorrei che questa cosa non mi passasse mai dalla testa, la trovo la perfetta sintesi di quello che ho voluto dire.


Titoli di coda

Chiudo con un caso curioso accaduto durante la Messa di Natale nella chiesa del mio paese. 
Tradizione vuole che la notte tra la Vigilia e il 25 si trascorra da Berta insieme a tutti gli amici e le amiche. Ne va che il giorno di Natale mi sono svegliato con addosso un hangover fantascientifico e anche andare a Messa nella chiesa del mio paese si è trasformata in un’avventura leggendaria. 
Entrati con discreto ritardo e con le panche quasi tutte già occupate, abbiamo zombeggiato fin quando non abbiamo trovato posto nella navata in cui, per lo meno io, penso di essermici seduto massimo tre volte in trentasei anni. Durante l’eucaristia faccio caso ad uno sketch singolare, un accenno di discussione sul rispetto della fila per la Comunione; si tratta di una scena cui assisto di sfuggita perché son fuori posizione ma son abbastanza certo di non aver mai visto nessuno dei due contendenti, in particolar la ragazza.
Finita la Messa, attendiamo che il fiume di gente volga la corrente fuori le porte e ci alziamo. 
Proprio in quel momento vien verso di me una delle due persone che avevo visto discutere durante l’eucaristia. Sebbene sia ancora in uno stato semi-confusionale e tutto mi appaia molto dilatato e caotico, riconosco subito la ragazza: è la signorina Bianchi, la mia compagna di Liceo, proprio quella che quasi vent’anni fa sbaglio bellamente complimento.
Non dico che da allora non ci si sia più visti, non sarebbe vero. Di certo però non ci siamo più visti dopo la maturità, quindi lo sbaglio non è che di qualche mese, e nell’economia di un ventennio è poca roba. 
Scambiamo due chiacchiere e la discussione è tra il surreale e l’irripetibile. 
È come se stessi parlando con una persona che è venuta dal passato e l’alcol che ancora scorre forte nelle mie vene rende più stupefacente ogni dettaglio.

Forse Doc potrebbe spiegarmi qualcosina

Accorgendosi che la donna con me non può che essere mia moglie, la signorina Bianchi mi chiede se le nostre compagne e i nostri compagni si siano sposati e/o siano madri o padri. Pur essendo al corrente della vita di quasi tutti, trovo difficile fare un recap veloce ed immediato di così tante esistenze e condensarle in pochi attimi di parlato. Le rispondo allora d’essere per lo più in contatto con le ragazze e i ragazzi con cui sono sempre andato più d’accordo, di uscirci insieme anche se compatibilmente con gli impegni e le tempistiche di ognuno di noi.
Lei mi guarda e, tagliando corto, chiosa:”Ah beh, gli stessi di una volta. Non è cambiato niente”.
Per un istante stacco la spina dalla conversazione e mi riverso nel mio mondo mentre lei continua a parlare del suo lavoro e delle persone a lei vicine.
Lei no, lei non è cambiata di una virgola, sembra davvero si sia teletrasportata da un’altra dimensione temporale, sembra quasi non sia invecchiata di un giorno. Anche la sua risposta secca risponde alle caratteristiche del personaggio, probabilmente nella sua testa sono io l’anomalia, come del resto sono sempre stato.
Il cerchio si chiuderebbe perfettamente se mi dicesse che sembro giovanile... ma non lo fa.
Forse è meglio così, sarebbe stato il peggior complimento che m’avrebbe potuto rivolgere.
Scordavo: naturalmente ogni riferimento a persone, fatti o cose è puramente casuale.

P.S. Ad ogni modo il punto ce lo mette sempre Fonzo che, appena superata la porta di casa sua mi guarda e mi fa:"Bella quella giacca, sembri Stefano Accorsi da vecchio". 
Game, set & match.

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